martedì 22 agosto 2006

REPORT DA HAKKARI

di Lucia Agrati
Hakkari, 1° agosto 2006

Centro culturale Avaşin
La delegazione lascia l’ufficio del sindaco per dirigersi al centro culturale di Avaşin. Attraversiamo la cittadina caotica, sui marciapiedi e nei tavolini all’aperto dei bar, molta gente, quasi esclusivamente uomini, le donne evidentemente escono solo se è veramente necessario, si girano al nostro passaggio. Sarà l’abbigliamento variopinto e curioso che abbiamo, sarà che un tale gruppo di stranieri tutti insieme non è comune vederlo da questa parti, o sarà per la “scorta”che ci segue a pochi metri, che non ci ha lasciato un minuto dal nostro arrivo in città. Due, a volte tre uomini, dei servizi segreti, in borghese ma vistosamente armati che ci seguono sfacciatamente; capiremo poi che il loro compito non era solo controllare i nostri spostamenti, del resto a loro noti fin dal nostro arrivo, ma evitare con la loro presenza nuovi incontri o contatti spontanei con la popolazione. Difatti nessuno ci avvicina e ci rivolge la parola. Chi lo fa sa cosa rischia, sono i nostri interlocutori di oggi, gli associati del centro culturale Avaşin e i membri del DTP, da tempo schierati per la difesa della causa curda che hanno già subito la repressione, il carcere e le torture.
Saliamo nel palazzo in cui ha sede l’associazione culturale, lasciando giù la “scorta” in fedele attesa. All’ultimo piano si apre davanti a noi un grande salone azzurro, dipinto di recente, con alle pareti un paio di elementi della cultura tradizionale curda, un tappeto, una falce, un antico abito femminile, tropo poco per un luogo che vuole essere la memoria storica delle tradizioni curde particolarmente ricche in questa zona di confine tra Iraq, Iran e Turchia.
Dopo i consueti saluti e l’immancabile cortesia del tè, il presidente dell’associazione ci racconta il loro lavoro. Quella curda è una cultura orale, tramandata verbalmente da generazione in generazione, senza l’apporto sicuro dei testi scritti, e come tale richiede costanza nei rapporti fra maestro e allievi, una vicinanza che deve durare nel tempo affinché tutto possa venire trasmesso e affidato per le generazioni future.
Il centro è stato fondato nel 2002 e da allora ha subito parecchie aggressioni da parte della polizia, che vede nel centro culturale una sorta di fucina di sentimenti anti-turchi. Dieci soci sono stati arrestati e tutti i membri dell’associazione hanno dai quattro ai cinque processi in corso!
Alla repressione si affiancano tutta una serie di impedimenti indirizzati ad isolarli. L’unica sala che si presterebbe per delle rappresentazioni ad Hakkari è di proprietà della Prefettura che a sua discrezione applica tariffe d’affitto o la cede in concessione gratuita. Come è facile immaginare Avaşin in quattro anni di attività non ha mai ottenuto l’utilizzo della sala a prezzi accessibili. Ritroviamo ancora una volta la negazione nei fatti di tutto ciò che è curdo, nonostante leggi, proclamate a gran voce per il riconoscimento della cultura curda.
Un rumore per strada ci fa sobbalzare, alcuni occhi si incrociano con i miei, forse per la mia posizione più prossima alla finestra, esito un istante ma poi mi alzo e mi affaccio. Percorro con la sguardo tutta la strada, niente di speciale, bambini che giocano inseguendosi, uomini che camminano velocemente parlando fra di loro; gli unici immobili rimangono i nostri uomini della “scorta”, che ormai sono diventati una decina, uno di loro mi guarda, siamo controllati anche se ci affacciamo. Alzo gli occhi la cime delle montagne trasmettono una quiete millenaria, penso a tutto quello che nascondono in questi giorni e mi torna un senso di tranquillità.
Mi risiedo appena in tempo per sentire il presidente, che si rivolge a noi donne della delegazione: siete molte ci dice, ci fa piacere, perché non fate qualcosa per fermare i sempre più numerosi suicidi delle donne del nostro paese, gli stupri sistematici nei commissariati e i delitti d’onore? Restiamo immobili, non ci guardiamo neppure fra di noi. Il presidente riprende a parlare, rimprovera le delegazioni europee, impegnate, preparate, con una grande condivisione di speranze ma nel concreto assenti. “Quando siamo arrestati, durante i pestaggi e le torture spesso ci chiedono “Dov’è ora la vostra delegazione europea? Perché non la chiamate adesso?”.
Reagiamo, iniziamo a fare domande, abbiamo bisogno di conoscere. Com’è cambiata Hakkari con la guerra e la distruzione dei villaggi?
Ci raccontano di migliaia di profughi che da anni vivono ai livelli minimi di sussistenza, privati dell’unico mestiere che conoscono, la terra e l’allevamento. Ci racconta di una mensa popolare dello Stato e di situazioni di degrado forte, la prostituzione femminile in molti casi è l’unico sostegno economico per la famiglia.
Proponiamo di farci promotori di un progetto per sviluppare il laboratorio tessile di donne del centro, che potrebbe aumentare il numero delle donne che ci lavora.
Nella stanza vicina compriamo piccoli kilim, babbucce per l’inverno e quadretti tessuti per le pareti e ci riproponiamo una volta di più di essere presenti.