mercoledì 30 agosto 2006

KURDISTAN: BELLEZZA E GUERRA

A quasi un mese dal ritorno dalla nostra delegazione dal Kurdistan turco ripubblichiamo il report di Antonio Olivieri che ne riassume il viaggio. Scendendo nel blog potrete trovare testimonianze più approfondite dei singoli incontri e delle esperienze vissute in quei giorni. In fase di pubblicazione non è stato rispettato l'ordine cronologico, ma si è pubblicato il materiale man mano che veniva inviato dai singoli esponenti della delegazione una volta tornati in Italia
Dal 28 luglio all’8 di agosto, l’associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, insieme allo UIKI di Roma (ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia), ha promosso una delegazione di conoscenza responsabile, di contatti e solidarietà in Alta Mesopotamia, in quel Kurdistan turco, che è vietato chiamare Kurdistan, nell’antico giardino dell’Eden, oggi deturpato dalle rovine di 4 mila villaggi, dai profughi di guerra che attendono il ritorno, dai posti di blocco dell’esercito, dalle grandi dighe in costruzione sull’alto corso dei fiumi che furono culla dell’umanità, il Tigri e l’Eufrate.
Nel viaggio abbiamo incontrato i coraggiosi sindaci del partito filokurdo DTP (fondato dalla ex deputata del DEP, Leyla Zana ed erede del Dehap, per ben 7 volte disciolto dalle autorità turche e per 8 volte rinato sulle ceneri del precedente), le organizzazioni della società civile, le associazioni dei profughi, dei detenuti politici, della cultura kurda, gli in-
gegneri di Diyarbakir che si battono contro i progetti devastanti delle grandi dighe.
Come sempre, siamo stati accolti da una rete fraterna ed ospitale di società civile.

I primi appuntamenti sono avvenuti ad Istanbul. La delegazione ha visitato la baraccopoli kurda di Ayazma, un pezzo di Kurdistan tra i grattacieli e lo stadio olimpico, baracche costruite in una notte, in tutto 800 famiglie, 10 – 12 mila profughi, bambini ovunque…
E’ qui che la nostra associazione, insieme ai francesi Medici del mondo e a Libertè e Solidarietè, ha avviato l’esperienza di un centro sanitario per i residenti del campo.
Sempre ad Istanbul, incontriamo l’associazione Yakayder di Pervin Buldan, la vedova di un imprenditore kurdo assassinato dagli squadroni della morte. Da allora, coraggiosamente, denuncia il dramma dei “kaiplir” (gli scomparsi) e delle esecuzioni extragiudiziarie.
A lei consegnamo la prima tranche del finanziamento ad un progetto a sostegno dell’attività di ricerca e di denuncia della sua associazione.

Arrivando a Diyarbakir, capitale virtuale del Kurdistan turco, 300 mila abitanti ufficialmente censiti che arrivano ad un milione e mezzo con i profughi ammassati nella periferia urbana, incontriamo l’associazione dei disabili di Diyarbakir: 28 mila i disabili ufficiali, la maggioranza poliomielitici e ciechi, un fenomeno in costante crescita a seguito del conflitto interno e della mancanza di profilassi di vaccinazione.

Si prosegue per Sirnak, ai piedi del Monte Cudi, una cittadina di 70 mila abitanti che conta migliaia di profughi e sfollati, totalmente militarizzata.
Da quando i babilonesi allevavano sui pascoli di queste montagne capre dal pelo lungo, la città e l’intera zona, fino a Siirt, sono rimaste famose per la produzione di particolari stuoie e tappeti.
Oggi, pero’, nella zona, la guerra è ripresa, arrivano ogni giorno notizie di soldati e guerriglieri uccisi dai gas e dai terribili elicotteri da guerra fabbricati in America e in Germania.
Le foreste dei monti Cudi, Gabar e della valle di Besta stanno bruciando, le hanno incendiate i militari che impediscono che gli incendi vengano spenti.
In quest’area, si sta allestendo la piu’ imponente base militare di tutto il Kurdistan.
Siamo a 40 chilometri dal confine iraqueno e l’esercito turco ha dispiegato qui 250 mila soldati, affiancati da carri armati ed elicotteri, ufficialmente per “sigillare” le frontiere con Iraq e Siria, in realtà con l’obiettivo, neppur recondito ( americani permettendo), di sconfinare in Nord Iraq per “debellare” la resistenza del PKK, come ha fatto di recente Israele in Libano.
“Girano molte armi – ci dice il sindaco di Sirnak, Ahmet Ertak – per le vie cittadine ci sono parecchi civili armati, non sappiamo chi siano. Li chiamano “ozel teams “ (squadroni speciali).”
Sui monti intorno ci sono 5 mila guerriglieri; stanno pero’ aumentando i giovani kurdi che salgono “in montagna”.
A Sirnak, la nostra associazione sta realizzando, con la municipalità, un progetto – si chiama “Progetto Hevi, una speranza di vita a Sirnak” – che si propone di fornire un presidio sanitario attrezzato, rivolto in via prioritaria a donne e bambini.
Mentre stiamo parlando con il sindaco e i rappresentanti della municipalità, si sente cupo, sopra di noi, il rombo degli elicotteri che si levano in volo verso il monte Cudi, a caccia di guerriglieri, uno ogni cinque minuti, se ne sono già alzati una decina…

Da Sirnak, si prosegue per Hilal, Eludere, Mutluca, fino ad Hakkari, l’antica Merivan, una città fondata da una tribu’ kurda che qui si stabili’ 800 anni fa.
Hakkari, poca agricoltura, ancor meno commercio, eccezion fatta per i celebri tappeti Kilim che qui hanno una tradizione secolare, si trova in mezzo a montagne, vallate e gole mozzafiato, tra le piu’ belle della Turchia, se non fosse per l’onnipresente presenza militare.
Abbiamo percorso una strada lunga 175 chilometri – quella che corre tra Sirnak ed Hakkari – in otto ore, anziché nelle tre previste, restando fermi a ben otto posti di blocco,
l’ultimo dei quali tenuto da uomini in borghese, armati di pistole e mitragliette, esposte in bella mostra; squadre speciali, ci dicono i nostri amici.

Da Hakkari a Yuksecova, una cittadina di 100 mila abitanti, a 2 mila metri d’altezza, su un ridente altopiano, circondato da pascoli montani e vallate suggestive, per monitorare il progetto di centro sanitario voluto dalla municipalità e adottato dall’associazione milanese Fonti di pace – onlus, e poi verso Semdinli, all’incrocio di tre confini, turco-iraniano-
-iraqueno, dove sono state smascherate le operazioni della “gladio” turca, foraggiata e sostenuta da alcuni generali dell’esercito, il cui scopo era quello di tener viva, attraverso provocazioni ed attentati, la guerra contro il PKK.
L’ultimo attentato, quello del 9 novembre 2005, contro la Libreria UMUT di proprietà di Seferi Yilmaz, uno dei fondatori del PKK insieme ad Ocalan messo in libertà dopo 15 anni di carcere, è stato fatale per gli attentatori: sull’auto bloccata dalla gente del posto, c’erano tre agenti del “jetem”, armi, documenti e un elenco di 25 persone da eliminare
in tempi brevi, oltre ad un altro elenco di 75 persone considerate “pericolose”.
Sono stati arrestati i tre attentatori, ma, per pareggiare i conti, sono pure stati ridotti in carcere il proprietario della libreria e sette ragazzi che avevano contribuito a bloccare
l’auto degli attentatori; restano in attesa di processo, mentre il generale Yasar Buvucanit, che è stato considerato dal procuratore di Van, il mandante degli attentati, oggi è diventato capo di stato maggiore dell’esercito!

Sulla via del ritorno, la nostra guida ci racconta di queste alte montagne, rifugio di guerriglieri. Di notte scendono a valle, sulla statale, a svolgere azioni di controllo del
territorio. Recentemente, hanno effettuato dei blocchi stradali: fermano auto e camion,
controllano i documenti e poi ti dicono di avvisare il “check point” dei militari che i docu-
menti li hanno già visti loro!
Spesso attaccano qualche postazione militare o qualche caserma: a Cukurca, c’è una
caserma che è stata attaccata per ben tre volte in un solo mese!

Sono tutte città care alla resistenza kurda che vent’anni fa nacque proprio qui, nella regione montagnosa del Botan dove confluiscono i confini artificiali di Turchia, Iran, Iraq
e Siria.

Da Semdinli si prosegue per Van, sul lago omonimo, quasi un mare a 1700 metri d’altezza, dalle isole ricche di storia.
La città di Van fa risalire le sue origini leggendarie al gigante Gilgamesh e al diluvio uni-
versale e quelle storiche al regno di Urartu, quasi 4 mila anni addietro.
Legata alla municipalità di Van, c’è la cittadina di Bostanici, guidata da una coraggiosa sindaca del DTP e dove il Comune di Alessandria ha finanziato e realizzato
un progetto di acquedotto.
Visitiamo la cooperativa di kilim “Bekadcoop” gestita da donne, la biblioteca e il centro culturale dedicato a “Vahdettin Inan”, il giovane ucciso dai militari durante le manifestazioni di qualche mese fa a Bostanici, la cui madre è stata insignita dalla municipalità col titolo di “madre della pace”.
All’ingresso del centro culturale campeggia una grande scritta in kurdo, attribuita a Zaratustra. Dice: “Pensa giusto, parla giusto e agisci in modo giusto”.

Alcuni di noi decidono di partecipare alla manifestazione che si terrà nella notte tra il
4 e il 5 agosto ad Hasankeyf contro l’avvio dei lavori per la costruzione della diga di I-
lisu ad opera di un pool di società europee e turche, decisione appena assunta dal go-
verno turco.
Si tratta di un progetto devastante, destinato a sommergere 313 kmq di territorio, decine
di villaggi e a creare un’ondata di nuovi profughi.
Sono 17 ore di viaggio, da Van ad Hasankeyf e poi il ritorno fin su a Dogubeyazit, dove
c’è l’appuntamento con il resto della delegazione.
Non ci scoraggiamo.
Con un grande striscione in quattro lingue – turco, kurdo, italiano ed inglese – recante la scritta “Giù le mani da Hasankeyf”, saliamo su uno di quei veloci, economici e pittoreschi dolmus, sempre stracarichi, e via verso l’antichissima Hasankeyf, dodici millenni di storia, ricca di testimonianze che risalgono all’epoca dei sumeri e degli assiri, simbolo della cultura kurda e della pacifica convivenza tra islam e cristianità, nella storia.
La manifestazione, molto partecipata, durerà l’intera notte: un grande concerto e poi la
veglia fino all’alba, ai piedi delle rovine della città antica scavata nella roccia.
Ci concediamo un breve riposo su un “text”, una sorta di grande divano a baldacchino,
con enormi cuscini rettangolari, in riva al fiume Tigri, che scorre lento verso Sud, da
millenni…

Al mattino di buon ora siamo di partenza.
Il dolmus si inerpica su strade impossibili e poi, a precipizio, giù verso aride e polverose
vallate.
Verso Dogubeyazit, il paesaggio muta, diventa piu’ verdeggiante; incontriamo villaggi di
pietra e case basse dove il tempo pare essersi fermato, grandi massi di lava eruttati un tempo dalle bocche di un vulcano che non fa più paura, sterco secco ammonticchiato buono per il riscaldamento invernale, nugoli di bambini, e, sui pali della luce, grandi nidi
di cicogne… sono le cicogne del monte Ararat.

Dogubeyazit è la porta dell’Ararat, il cui nome originario è Agri Dagi, Monte del dolore, un cono innevato che si alza per oltre 5 mila metri, e, dove, secondo la leggenda, sarebbe approdata l’Arca di Noè, dopo il diluvio universale.
La città è dominata dal castello di Ishak Pasa, che si staglia dinnanzi al grande Ararat, sagoma grandiosa e senza tempo di uno scafo incagliato sulla riva di un mare di sabbia e terra, diversamente colorata.
La sindaca della città – Mukaddes Kubilay – è una combattiva operaia tessile del partito
DTP; qui è stato realizzato, dalla provincia di Ancona, un importante progetto, la casa delle donne maltrattate di Dogubeyazit.
E’ preoccupata, Mukaddes Kubilay: da due anni sono venuti meno i rapporti con la cooperazione italiana, come scomparsi, la situazione in città è molto difficile, non passa giorno che non giungano notizie di eccidi e massacri, lei stessa è stata denunciata dalle autorità turche per aver autorizzato il trasporto, con l’ambulanza del Comune, del corpo
senza vita di un guerrigliero vittima di un’esecuzione extragiudiziaria.
Di notte, dalle montagne attorno, si sente il crepitio di armi automatiche e il sordo rimbombo degli spari di cannone… “Sono fuochi artificiali”, ci dicono i nostri amici, per
tranquillizzarci.

Concludiamo il viaggio, visitando le rovine di Ani, antica capitale dell’Armenia e la città di Kars, dove, Ohran Pamuk, lo scrittore perseguitato del regime turco per le sue coraggiose denunce sul genocidio armeno e sulla “sporca” guerra contro i kurdi, ha am-
bientato “Neve”, il suo romanzo piu’ noto.
A Kars, incontriamo il presidente del DTP, Mahmut Alinak, un ex deputato del DEP, incarcerato insieme a Leyla Zana.
Ci parla della scelta di avviare, in autunno, a partire da Kars, un grande movimento di disobbedienza civile nelle città kurde: rifiuto di utilizzare denaro pubblico, rifiuto di pre-
sentarsi in tribunale, in gendarmeria, di rinnovare i documenti, di registrare le nascite, di
mandare i figli a scuola, di fare acquisti nei supermercati delle grandi catene commerciali tipo Migros…
“Sospenderemo ogni rapporto con lo Stato turco – ci dice – organizzeremo nostre scuole, nostre istituzioni, compreremo solo nei negozi dei nostri bazar… sarà dura, sappiamo bene quali rischi corriamo, ma alla fine, nella misura in cui si effettuerà una
battaglia pacifica e civile, costringeremo lo Stato a fermare la repressione e la guerra.”

Ad Istanbul, prima del nostro rientro in Italia, abbiamo ancora il tempo d’incontrare Dogan Genc, dirigente dell’IHD, l’associazione dei diritti umani, e Yuksel Genc, una giovane ex guerrigliera autoconsegnatasi alle autorità turche, insieme ai due gruppi di
pace, uno proveniente dall’Europa e un altro dalle montagne, come segno di disponibilità al dialogo, che, per tutta risposta, è stata seppellita in carcere per svariati anni, insieme ai suoi compagni.
Adesso è impegnata nella costruzione di un vasto schieramento per la pace, insieme a
politici, intellettuali, studenti, sia turchi che kurdi.
Ci chiede un aiuto per far uscire un libro sulla sua storia e sull’esperienza dei gruppi di
pace, aiuto che volentieri accordiamo.
Ci parla del giornale dove lavora, Ozgur Gundem (Sguardo Libero), il quotidiano filokurdo legale, chiuso almeno sette volte ed otto volte riaperto con un nome diverso,
dove quaranta giornalisti hanno pagato con la vita il prezzo delle loro scelte e che, in
appena due anni e mezzo di vita, ha già totalizzato qualcosa come 550 procedimenti giudiziari a carico.
Proprio in questi giorni, le autorità turche, utilizzando la nuova legge antiterrorismo -peggio della Costituzione uscita dal colpo di stato del 1980, ci dicono – ne hanno decretato la chiusura temporanea per un periodo di 15 giorni. Ma i kurdi non sono avvezzi alla rassegnazione: immediatamente, nelle edicole, è uscita una nuova testata
“Toplumsal Democrasi” (Democrazia sociale) che sostituisce Gundem ed avrà vita, per
l’appunto, di 15 giorni.
Ci lasciamo.
Ambasciatori di un’altra Europa possibile, la delegazione italiana che si è recata in Kurdistan è stata chiamata ad osservare e a testimoniare sull’altra faccia, nascosta,
della quasi europea Turchia: le associazioni dei diritti umani, dei detenuti politici, degli
scomparsi a perenne rischio di chiusura, le baraccopoli e i quartieri fatiscenti abitati da migliaia di sfollati, la morsa dei militari che attanaglia quei monti e quelle città guidate da coraggiosi sindaci del DTP, con in testa le donne…
Oltre il muro del silenzio.