lunedì 28 agosto 2006

2 agosto 2006 – Escursione della delegazione a Şemdinli



[Report e foto di Giovanni CAPUTO – agosto 2006]

Şemzînan è, in lingua kurda, il nome di Şemdinli, piccola città con circa 14000 abitanti, situata nel lembo estremo dell’Anatolia sudorientale, vicino ai confini turchi sia con l’Irak, a sud, che con l’Iran, a est.

Di Şemdinli ci hanno già parlato durante il nostro soggiorno ad Hakkari: in particolare EGE, presidente della sezione locale del DTP, ci ha detto dell’udienza del processo d’appello, in programma a Van presso la Corte d’Assise penale il 3 agosto, riguardante gli eventi del novembre scorso. Il giorno successivo, 4 agosto, giungeranno a Şemdinli, per una conferenza-stampa nei pressi della libreria UMUT, alcuni sindaci appartenenti al DTP, legali impegnati nel processo, nonché esponenti della sinistra turca e di organizzazioni della società civile (l’udienza si rivelerà in ogni caso interlocutoria, con rinvio a nuova udienza da tenersi a fine mese).

Il 2 agosto, alle nove del mattino, con un dolmuş ci mettiamo in viaggio da Yűksekova (Gewer, per i kurdi) in direzione sud, per percorrere i 53 chilometri che ci separano da Şemdinli. Attraversiamo l’altopiano su cui sorge Yűksekova [rakım, ossia altitudine: 1940 metri s.l.m.]: vi ricresce finalmente l’erba (in passato i militari turchi avevano bruciato la zona per mettere in difficoltà i guerriglieri kurdi) e si nota una ripresa dell’attività di pascolo (pecore, mucche,…). Si nota anche che da poco i contadini hanno provveduto alla fienagione. Poi s’imbocca la strada verso il valico montano [rakım: 2010 metri s.l.m.], superato il quale la strada degrada lentamente verso Şemdinli [rakım: 1370 metri s.l.m.], tra gole d’una bellezza difficile da descrivere con le parole (ora anche gli alberi stanno ricrescendo: il loro fogliame verde crea un fantastico contrasto luminoso con i colori caldi delle rocce circostanti): all’uscita da ognuna si può scorgere la sagoma maestosa del Monte Cilo e, più in là, il profilo delle catene montuose situate in territorio iracheno.
Pochi, e sostanzialmente “leggeri”, i checkpoint: quello immancabile, presso il ponte metallico all’uscita da Yűksekova, dove si trova il bivio in cui la strada si biforca e da un lato procede verso sud, dall’altro conduce ad Hakkari; poi uno intermedio della Jandarma, al valico montano; infine l’ultimo, poco prima dell’ingresso a Şemdinli: mentre un armigero controlla i nostri passaporti e i documenti dell’autista, scorgiamo l’avanzare, dalla caserma poco distante verso la strada che percorriamo, d’un gruppuscolo di militari frammisti ad alcuni guardiani di villaggio.

Giunti in città, ci rechiamo immediatamente al belediye per incontrare il Sindaco, Hűrşit TEKIN, appartenente al DTP. Nel novembre scorso è rimasto leggermente ferito, mentre si sforzava di mediare per evitare ulteriori tafferugli tra le forze di sicurezza e la popolazione locale; TEKIN ci accoglie con grande cordialità. Poi inizia a parlarci, raccontandoci ovviamente da subito gli eventi di novembre 2005.
Dapprima, all’inizio del mese, fu distrutto da un’esplosione un intero edificio contenente numerosi negozi, per fortuna senza morti né feriti gravi. Si provò ad addossare la responsabilità dell’attacco dinamitardo al PKK, ma appare ormai evidente che esso fu compiuto da elementi in “rapporto di contiguità con la polizia”. Poi, il 9 novembre, si ebbe il lancio d’una granata all’interno della UMUT Kitapevi (di proprietà d’un ex appartenente al PKK). Morì una persona, che si trovava all’interno della libreria, e ne morì in seguito un’altra, colpita nel corso delle proteste immediatamente successive all’esplosione. Altre tre persone morirono a Yűksekova, nelle manifestazioni di protesta per l’accaduto, a causa dell’attitudine repressiva delle forze di sicurezza.
Il dato più rilevante fu tuttavia che, subito dopo aver scagliato l’ordigno contro la libreria, tre persone provarono a dileguarsi ma furono bloccate dalla coraggiosa reazione dei civili accorsi: l’automobile dei tre non era in grado di proseguire, perché bloccata dalla folla, e all’interno di essa furono rinvenute armi d’ordinanza e due elenchi di persone. In un elenco erano indicati i nomi di 25 persone residenti a Şemdinli, da eliminare in tempi rapidi; il secondo elenco conteneva altri 75 nomi, di persone segnalate come tehlikeli (“pericolose”), da eliminare successivamente. Risultò anche che gli attentatori erano persone vicine ai militari.
A partire da allora, racconta TEKIN, non vi sono più state esplosioni in città. Di ciò TEKIN si dice contento, poiché egli auspica che regni la pace, non solo a Şemdinli, ma anche nell’intera Turchia, dove vi è gente che purtroppo muore un po’ ovunque a causa della violenza, quantunque il popolo kurdo voglia la pace e lavori per conseguirla al più presto .

Un conflitto, quello turco-kurdo avviato oltre venti anni fa, ha prodotto quasi 40000 morti e reso invalide circa 25000 persone: TEKIN ne trae spunto per rammentare che occorre “fermare le armi e diffondere la democrazia e la pace”. Poi aggiunge: “Vogliamo, noi kurdi, vivere come il popolo turco, convivere con esso. Tuttavia non potranno giungere in questo Paese democrazia e pace fino a quando la Questione Kurda non sarà stata risolta. Anche la popolazione turca soffre a causa della guerra, però solo i kurdi levano la loro voce per manifestare la contrarietà alla guerra stessa e chiedere Aşti, ‘pace’). Sia le madri turche che quelle kurde perdono i loro figli, che perdono la vita negli scontri armati, ma soltanto le madri kurde protestano! Quelle turche no!”. Prima di passare ad altro argomento, TEKIN chiosa: “Noi kurdi vogliamo la pace!”.

TEKIN prosegue: “Seferi Yılmaz, proprietario della libreria colpita dall’esplosione, è nuovamente in carcere dal 20 giugno, data della condanna degli attentatori –dei militari!– che hanno gettato l’ordigno esplosivo. È stato incarcerato per inscenare un perpetuarsi dell’equilibrio; infatti le autorità turche hanno reso noto che a Siirt si era arreso un esponente di rilievo del PKK, che non voleva più essere guerrigliero. Costui, al momento della resa, ha anche fatto una delazione, asserendo d’aver udito una volta parlare tra loro due dirigenti del PKK e dire: «Yılmaz è un buon amico e deve essere protetto!». Pertanto le autorità, insospettite da questa dichiarazione, hanno arrestato il libraio, considerandolo un presunto appartenente al PKK. Questa è la scena costruita. Occorre ricordare che Seferi è stato, insieme ad altri, tra coloro che hanno fermato i tre attentatori. Essendo ormai impossibile lasciare andare i tre senza conseguenze giudiziali di alcun tipo a loro carico, si è costruito da parte delle autorità uno scenario tale da ristabilire un equilibrio. Si sono operati arresti sia da una parte (i tre, il delatore) che dall’altra (Seferi e altri, che bloccarono l’automobile degli attentatori il 9 novembre e parteciparono a successive manifestazioni di protesta per l’accaduto). In seguito, tuttavia, il delatore è stato liberato, mentre Seferi resta tuttora in carcere, dove rimarrà per almeno sei mesi”.
TEKIN aggiunge un riferimento ai sette ragazzi di Şemdinli.arrestati dopo il 9 novembre per aver contribuito a fermare gli attentatori e per aver partecipato alle manifestazioni di protesta nelle strade cittadine: sono ancora agli arresti, ma ancora non hanno subito alcun processo. Le autorità intendono però chiedere loro i danni per i beni statali (ad esempio, l’automobile) danneggiati dopo l’esplosione alla libreria. Si basano sulle fotografie che scattarono allora per documentare i danni e identificare la gente presente che reagì nei confronti degli attentatori. Intendono anche accusarli formalmente d’aver fatto propaganda a un’organizzazione illegale.
Quanto all’arresto dei tre attentatori, a seguito di esso un generale dello Stato Maggiore ha detto che si tratta di “bravi soldati”. Tale dichiarazione dimostra, a detta di TEKIN, che fu lo stato a ordire tutto ciò. Del resto in giugno, all’udienza conclusiva del processo di primo grado a loro carico, erano presenti in tribunale anche membri del JITEM, che hanno applaudito alla decisione d’arrestare Seferi Yılmaz e hanno elogiato la condotta degli spioni attentatori. Nel suo atto di accusa ai tre attentatori, il procuratore incaricato a Van aveva anche parlato d’un coinvolgimento di quel generale e per questo è stato destituito e rimosso dall’incarico. Anche Sabri Uzun ha pagato le parole pronunciate con il licenziamento (le sue dichiarazioni sono di fatto equivalse a un atto d’accusa nei confronti dello stato turco): Uzun era a capo dei sevizi segreti; quando il Parlamento di Ankara ha istituito (in pratica costretto dalle circostanze venutesi a creare) una commissione d’inchiesta per far luce sui fatti di novembre, egli così sui è espresso al cospetto della commissione nella sua audizione: ‘Quando un ladro si trova all’interno d’una casa per derubare, non vi è necessità che sia il proprietario della casa a chiudere il ladro in trappola all’interno dell’abitazione; ma è lo stato a dover provvedere a ciò’. Che ne è, invece, del generale che aveva elogiato i soldati attentatori? “Da inizio agosto egli è il nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Turche!”, ci ragguaglia TEKIN..
Eppure il Primo Ministro Erdogan, quando era giunto a Şemdinli e Yűksekova in visita, aveva promesso il massimo impegno per perseguire tutti gli autori dell’atto criminoso perpetrato contro la libreria UMUT e rendere giustizia; in seguito, però, tutto è stato messo a tacere. TEKIN ricorda che però molte delegazioni (di addetti dell’Ambasciata greca ad Ankara, di esponenti parlamentari europei,…) sono giunte a Şemdinli dopo novembre, per sapere cosa vi fosse accaduto. TEKIN rammenta anche: “Una settimana fa un generale dell’esercito, ora in pensione, ha dichiarato pubblicamente in un’intervista che, quando era in servizio attivo, anch’egli ha compiuto atti di quel tipo, scagliando bombe così come è avvenuto a Şemdinli, con l’unica ma sostanziale differenza che gli autori del lancio di Şemdinli non hanno fatto le cose per bene fino in fondo”.
TEKIN illustra poi anche, brevemente, la nuova legge anti-terrorismo, in vigore in Turchia da giugno, definendola anti-democratica: dà infatti alla polizia la possibilità di sparare a piacimento, il che implica una sospensione del cammino di democratizzazione; “Nell’area di Van, da quando vige la nuova legge, sono già stati uccisi alcuni pastori, mentre erano impegnati sui pascoli”. TEKIN ci riferisce anche di operazioni militari attuate congiuntamente da Turchia e Iran nei confronti dei kurdi, nei territori di entrambi i Paesi.

Qual è la situazione dei kurdi siriani, gli viene chiesto: “La situazione dei kurdi che vivono in Siria è per certi aspetti anche peggiore che per quelli che vivono altrove: l’esercito siriano non attua operazioni militari, ma vi sono operazioni statali segrete, che hanno lo scopo di eliminare in quel Paese tutti i fautori della democrazia, non soltanto quelli di origine kurda. La Siria, inoltre, concorda attualmente con la Turchia nell’atteggiamento ostile verso i kurdi: lo scorso anno il Presidente siriano Bashar Al-Assad è stato in visita ad Ankara e vi ha concluso un accordo in funzione anti-kurda. In precedenza ogni stato (Siria, Iran, Irak, oltre alla Turchia) perseguitava i propri kurdi, ma si mostrava disposto ad appoggiare quelli provenienti dai Paesi limitrofi (si ricorda, ad esempio, che il Presidente siriano Hafez Al-Assad a lungo concesse ospitalità e protezione ad Abdullah Őcalan). Ora, invece, tali Paesi tendono a collaborare fra loro in funzione anti-kurda. Vi è un altro aspetto rilevante: fino a marzo 2004 i kurdi siriani erano sostanzialmente passivi e pertanto vi erano scarsissime ragioni per reprimerli, a partire da allora, però, la situazione è peggiorata. Permane, altresì, il problema che a molti kurdi siriani non è riconosciuta la cittadinanza. Ciò li rende ‘abitanti di seconda classe’: ad esempio, non potendo ottenere una carta d’identità, non possono di conseguenza nemmeno esercitare il diritto di voto e altre prerogative ”.
Le Nazioni Unite tempo fa hanno redatto un rapporto, nel quale si attestava che ì Kurdi costituiscono il più grande popolo tuttora privo di un proprio stato: finché tale situazione permarrà, a detta di TEKIN, sorgeranno problemi. La Turchia sostiene di aver riconosciuto i diritti fondamentali (ad esempio, quelli linguistici e culturali) e tuttavia persiste, non solo in Turchia ma anche negli altri tre Paesi, lo sforzo inteso ad assimilare i kurdi.
La proposta di Abdullah Őcalan riguardo al Confederalismo Democratico è definita da TEKIN “molto profonda sul piano sentimentale, ma anche ardua da far avanzare. I kurdi sparsi nei quattro Paesi suddetti vogliono assumere iniziative comuni, ma incontrano difficoltà derivanti soprattutto dalla contrapposizione esercitata da stati dall’atteggiamento rigido e sostanzialmente anti-democratico. Basti pensare a quanto è avvenuto alcuni giorni fa a Urfa: a una grande iniziativa kurda per un incontro hanno preso parte 138 persone (rappresentanti sia politici che sindacali), ma la polizia ha poi arrestato tutti i partecipanti all’incontro, scarcerandoli soltanto il giorno successivo. Ciò testimonia che già è difficile per i kurdi prendere iniziative all’interno della Turchia, conseguentemente risulta ancor più arduo estendere le iniziative ai quattro Paesi. Prima di tutto, occorre che in tali Paesi si attui la democratizzazione”.
TEKIN chiude così il suo discorso: “Come nell’area di Şırnak, così anche in quella di Şemdinli molti elicotteri da guerra si levano in volo, frequentemente, per perlustrare i dintorni. Un mese fa nei pressi del villaggio di Beygőz è stata rinvenuta una mina presso una costruzione. I militari hanno poi iniziato a sparare, senza affatto curarsi di se vi fossero nei paraggi animali o persone. Hanno anche circondato il villaggio e poi aperto il fuoco, a scopo intimidatorio. Riguardo alle frequenti esplosioni di mine, la popolazione è molto preoccupata. Dopo i fatti di novembre, tuttavia, si avverte che gli occhi del mondo sono puntati su Şemdinli e dunque le autorità fanno attenzione, affinché non vi si verifichino episodi gravi, per non attirarsi critiche dall’estero. Non è tuttavia da escludersi che, trascorso qualche tempo, quelle stesse autorità cercheranno di vendicarsi e rivalersi in qualche maniera sui kurdi. Seferi già si trova in carcere e non si sa cosa potrebbe accadergli in futuro; potrebbero verificarsi delle uccisioni. E non dimentichiamo che i confini con l’Irak e l’Iran sono molto vicini e che dai territori montuosi oltre le frontiere si sente provenire di frequente, già attualmente, l’eco sordo di detonazioni…”.

Concluso l’incontro con il Sindaco TEKIN, ci rechiamo a incontrare gli esponenti locali del DTP nella loro modesta sede (al primo piano d’un edificio che affaccia sulla strada principale), dal cui balconcino si gode una splendida vista della cima rocciosa del Monte Cilo..
L’incontro si caratterizza per la sua coralità: in una stanza, un po’ angusta per contenerci tutti, si affollano attorno a noi tutti gli esponenti locali del partito (sono circa una ventina: tra loro vi sono due ragazze); dopo il discorso introduttivo del loro presidente, quasi gareggiano per poter esprimere le loro opinioni.
Il popolo kurdo –esordisce il presidente– lotta da decenni per l’indipendenza e in questa sua lotta ha difeso costantemente valori come la pace e la fratellanza; intende continuare a farsi latore d’un messaggio di fratellanza, producendo ogni sforzo possibile per favorire la convivenza con altri popoli. Vogliamo, però, che anche gli europei facciano qualcosa: ad esempio pressioni sulla controparte turca, dal momento che essa costringe finora il popolo kurdo a vivere in condizioni terribili, in mezzo a numerose difficoltà, sia di natura politica che di tipo economico. È dunque necessario che anche voi europei svolgiate un ruolo importante nella nostra lotta; di ciò vi ringraziamo fin da ora.
“Dal 1998 il conflitto armato era fermo; di fatto lo scorso anno è ripreso; non si erano verificati eventi importanti, qui, fino all’esplosione nella libreria UMUT (anche se tra il 1998 e il 2005 non erano mancate attività repressive delle autorità ed esecuzioni extragiudiziali). Il popolo kurdo, dopo aver chiesto la pace, ha sperimentato ancora una volta una brutale violenza e ciò ha provocato la ripresa delle ostilità in armi. Ne siamo tristi, poiché muoiono ora sia guerriglieri kurdi che soldati turchi. Tuttavia noi non vogliamo affatto il separatismo”.

Scorgo sulla parte opposta fotografie significative: quelle relative alle manifestazioni popolari di protesta represse dopo l’esplosione nella librariea UMUT affiancano quelle agghiaccianti della strage di Helepce [Halabja, villaggio del Kurdistan iracheno la cui popolazione fu sterminata con armi chimiche il 16 marzo 1988]. Poniamo domande a raffica ai nostri ospiti, e di seguito vi è una sintesi delle risposte forniteci.
Riguardo alle condizioni sanitarie ci viene spiegato che a Şemdinli c’è un ospedale, ma mancano i medici. Pertanto chi sia colpito da malattie gravi deve essere inviato a Van (che dista pressappoco 250 chilometri), per poter ricevere cure.
Si passa poi a illustrare la condizione di vita delle donne: ci spiegano che nell’area vi sono numerosi guardiani di villaggio (kőy koruyucular); essi trascorrono molto tempo fuori casa e le loro mogli soffrono, anche perché su di loro finisce per gravare interamente il peso dei lavori domestici. La popolazione di Şemdinli osteggia i kőy koruyucular . Tuttavia occorre considerare che a molti di loro è stato intimato dalle autorità di diventare guardiani, se volevano continuare a rimanere sul territorio natio. In quanto erano povera gente, sono stati costretti ad accettare una scelta così umiliante. A Şemdinli è presente una piccola associazione di donne, ma così non è nei villaggi circostanti. Le donne qui non sono ancora libere di esprimersi, essendo ancora forte, ad esempio, il peso delle tradizioni. Riferisce una ragazza: “Siamo solo due donne in questa sede di partito e pertanto non possiamo far molto. Tuttavia organizziamo riunioni sia qui che anche spostandoci nei vari villaggi della zona. A molte donne, però, i mariti non danno il permesso di partecipare a tali incontri”. L’aborto è considerato dai kurdi come una pratica normale; tuttavia in molte zone sono spesso le radicate tradizioni locali a renderlo poco praticato.
Sproniamo questa ragazza a mantenere i contatti con noi, anche in vista di collaborazioni (ad esempio, per scambi d’informazioni) con associazioni e movimenti femminili attivi in Italia (portiamo l’esempio della Casa Internazionale delle Donne, di Roma). Mentre siamo intenti a costruire questi contatti, la polizia è nella strada sottostante e sulla soglia del pianterreno dell’edificio in cui ha luogo il nostro incontro.

Le donne non hanno problemi nell’inserirsi nell’ambito del partito –narra Kadri Őzcaner, il più determinato a esprimere le sue opinioni, tra i presenti– e molte prendono parte alle manifestazioni indette dal DTP. Sia nell’ambito dell’attività di partito che in quello familiare i membri del DTP non sono inclini a prevaricazioni di ruoli e nemmeno ad atteggiamenti violenti nei confronti delle donne. Al contrario, coloro che non appartengono al DTP criticano spesso i membri di questo partito per lo spazio che esso concede alle donne e per l’eccessiva importanza che, a detta loro, attribuirebbe al ruolo delle donne. È da elogiare l’attività di quelle che si recano a incontrare altre donne nei villaggi della zona. Occorre però ricordare che a Şemdinli è ancora notevole l’influenza delle tradizioni di tipo feudale e delle antiche convinzioni religiose, anche per la vicinanza dell’Iran e dell’Irak. Ciò fa sì, ad esempio, che siano poche le donne iscritte al partito in questa zona. Nel nostro partito e tra gli esponenti del movimento di lotta armata, tuttavia, le donne sono considerata pari agli uomini!. A Şemdinli, del resto, le donne sono libere di esprimersi all’interno del DTP, ma lo stesso non può dirsi riguardo ad altri partiti. A livello nazionale il DTP riserva alle donne una quota del 40% dei ruoli dirigenziali. Tuttora persiste, ma in misura più limitata che in passato, il fenomeno dei crimini d’onore. L’ultimo episodio che si rammenta in questa zona risale a ormai cinque anni fa. Si deve anche ricordare che quando una donna è vittima di violenza, solitamente si reca poi proprio presso il DTP, che le accorda sostegno e accoglienza.

Il presidente riporta poi il discorso sull’argomento politico: “I Kurdi lottano da anni; Abdullah Őcalan è sottoposto a un isolamento terribile da lungo tempo, eppure continua a proporre molte forme di soluzione della Questione Kurda, che però il governo turco si ostina a non voler valutare. La Questione Kurda deve essere tuttavia risolta insieme ad Abdullah Őcalan: le autorità turche devono considerarlo un interlocutore e discutere con lui. Non lo fanno, però!
Attualmente molte sono le perquisizioni e i controlli cui i membri del DTP devono sottostare, ma ciò contribuisce a creare ulteriore tensione, destinata prima o poi a esplodere. La tensione è cresciuta ancor più dopo il varo della nuova legge anti-terrorismo.
I Kurdi di Turchia vogliono una repubblica democratica, nella quale poter convivere con i turchi, con pari diritti. Fin dalle prime fasi la nostra lotta mirava a ciò. Attualmente i Kurdi iracheni sono inseriti in uno stato federale, i Kurdi siriani e iraniani manifestano aspirazioni autonomiste. Il PKK / Kongra-Gel, invece, punta a lottare affinché i Kurdi presenti all’interno di ognuno dei quattro Paesi possano ottenere una loro misura di autonomia all’interno dei rispettivi stati. La lotta in tal senso è però ancora nella sua fase primordiale. I partiti kurdi legali, come il DTP, vogliono che la liberazione del popolo kurdo avvenga nella forma proposta dal PKK, al quale riconoscono l’indubbio merito d’aver fatto progredire molto, nel corso degli anni, sia il popolo kurdo che tutti i movimenti formatisi al suo interno”.

Aggiunge il determinatissimo Őzcaner: “Negli Anni ’970 il PKK (attualmente la denominazione è Kongra-Gel, ma per semplicità di comprensione utilizzo ancora, come del resto fanno molti altri, la sigla PKK), si poneva come scopo la liberazione del Kurdistan e la sua indipendenza; tale scopo è stato poi accantonato, poiché era mutata la situazione politica mondiale. Attualmente il Koma Komalên Kurdistan (Confederalismo Democratico) è una proposta di obiettivi, da conseguire per i kurdi senza dover giungere a sconfiggere e distruggere gli stati preesistenti.

Gli esponenti del DTP ci offrono poi il pranzo, al quale, in un vicino ristorante, interviene anche Hűrşit TEKIN. Ho l’occasione di porgli una domanda sulla condizione dei bambini. Mi risponde che a Şemdinli non vi sono di certo i problemi riscontrati in altre città kurde (non vi sono bambini di strada, né vi sono bambini dediti a inalare colla o a consumare droghe); tuttavia TEKIN ha di recente rilevato un crescente fenomeno che lo preoccupa molto: si scorgono bambini che, in gruppetti (che col trascorrere dei mesi stanno divenendo sempre più folti), frugano tra i rifiuti in cerca di cibo, il che è un segnale evidente delle difficoltà sempre maggiori nel provvedere al sostentamento, che molte famiglie povere della zona devono fronteggiare.

Dopo pranzo ci rechiamo alla casa di Seferi Yılmaz, per far visita ai familiari; per giungervi, percorriamo a piedi per un centinaio di metri la strada principale in direzione sud. Siamo seguiti da due poliziotti in borghese, dall’aria tranquilla (uno dei due comprende l’italiano, poiché per alcuni anni è stato in servizio presso l’Ambasciata turca a Roma); molto più arcigne sono invece le facce dei due che chiudono il nostro piccolo corteo, seguendoci a bordo di un’automobile bianca (nella quale rimarranno, al nostro seguito, per tutto il tempo residuo della nostra permanenza a Şemdinli). Passiamo davanti all’edificio colpito e distrutto dalla prima esplosione dinamitarda avvenuta in autunno (quella di cui il Sindaco TEKIN ci ha detto che era stata pretestuosamente addossata al PKK). Poi iniziamo a salire per una strada polverosa, lungo il pendio d’una collina. Sulla nostra sinistra si scorge dapprima una caserma della Jandarma, poi una moschea (bella sotto il profilo architettonico ma purtroppo non fotografabile, in quanto troppo vicina alla caserma); sul nostro lato destro si può invece ammirare il panorama della verdeggiante vallata in cui è adagiata Şemdinli, coronata dai monti circostanti. Giungiamo in vista d’un giardino parzialmente recintato al cui interno giocano alcuni bambini; lo attraversiamo e in fondo vi è l’ingresso della casa: ci accolgono all’interno due sorelle del libraio, dall’aria dolente, varie giovani nipoti, sui cui volti profondamente espressivi si legge sia dolcezza che anche una profonda sofferenza; infine un ragazzo. Sono molto cortesi e conservano, come tratto comune a tutti, una dignità straordinaria nella pur difficile situazione: quando ci offrono il cay, sono talmente gentili da portarne anche ai due poliziotti che ci seguivano a piedi e che ora attendono nei pressi del giardino. Poi ci parlano della loro situazione familiare: principalmente sull’attività del libraio si basava il sostentamento dell’intera famiglia; ora Seferi è in carcere e dovrà rimanervi per almeno sei mesi, dopo aver in precedenza già scontato una pena di 16 anni di detenzione, dovuta al fatto che in passato militava nel PKK. Volti e voci s’ingentiliscono ancor più nel rammentare, con un velo di tristezza, che Seferi ha soltanto 36 anni e non è sposato. I parenti dei detenuti –ci viene spiegato– sono tenuti a provvedere al pagamento dell’elettricità, dell’acqua e d’altro per chi si trova in carcere; qualora all’arresto e all’incriminazione segua una condanna, saranno poi obbligati a pagare anche il cibo per il detenuto.
Ci dicono anche che della gestione della libreria, riaperta in luglio, si occupa per il momento il ragazzo, che con l’aiuto di alcuni zii anziani provvede a vendere i libri già presenti nel magazzino, ma non ancora a procurasene di nuovi: il giovane nipote di Seferi è appena 18enne e ha un viso ancora da bambino, ma fronteggia bene la situazione; proprio lui a fornirci la maggior parte delle spiegazioni, conservando sempre sul volto un timido sorriso. Le spese per la ricostruzione del negozio e quelle legali sono a carico dei familiari di Seferi, che tuttavia mostrano riconoscenza verso il DTP, che ha dato loro sostegno negli ultimi mesi.

Ci consultiamo tra noi, riguardo a una proposta lanciata da alcuni, di lasciare, perlomeno chi lo voglia, un’offerta economica spontanea alla famiglia Yılmaz. Il gruppo accoglie la proposta e viene fatta circolare una piccola borsa, nella quale ognuno possa riporre la cifra che desidera o che ritiene opportuna. Poi ci congediamo dalle donne e da alcune bambine presenti in casa e, accompagnati anche dal giovane nipote di Seferi, ci rechiamo alla libreria (che si trova nella strada principale di Şemdinli, a breve distanza dalla sede del DTP). La “scorta poliziesca” è solerte nel seguire i nostri passi.
Nella libreria sostiamo per circa dieci minuti. Notiamo i fori prodotti dalle schegge della granata esplosa, sul soffitto e su alcuni scaffali, nonché una targa esposta (si tratta del Premio per i Diritti Umani 2006, assegnato al libraio dall’IHD, l’Associazione per i Diritti Umani); e anche numerosi testi scritti dal Leader del Popolo Kurdo, Abdullah Őcalan, allineati ordinatamente su un ripiano. Scegliamo inoltre un libro in lingua turca sui dengbej (narratori che trasmettono oralmente storie della tradizione folkloristica kurda), da acquistare per “mascherare” la consegna della somma di denaro raccolta al giovane: effettuiamo la consegna nella libreria, stringendoci in cerchio attorno a lui, sia per manifestargli affetto e solidarietà che per celare il gesto eventuali a occhi indiscreti.
Nell’uscire dalla libreria, siamo ripresi con la telecamera, uno dopo l’altro, da un poliziotto in borghese. Poi ci apprestiamo a risalire sul dolmuş che ci ricondurrà a Gewer. Molta gente comune si è radunata in strada per salutarci. Per alcuni di noi il momento è particolarmente commovente: nel 2005 abbiamo partecipato in qualità di osservatori ai festeggiamenti del NEWROZ a Yűksekova e il giorno successivo siamo giunti a Şemdinli: ora, a sedici mesi di distanza, alcuni abitanti di Şemdinli ci riconoscono e ci rivolgono una calorosa frase di commiato in lingua kurda: “Zor Spas, Rojbaş!”.