giovedì 30 luglio 2015

Progetto HEVI U JIYAN – “La Speranza e la vita”

Progetto HEVI U JIYAN – “La Speranza e la vita”
per la realizzazione di un ospedale nel campo profughi
di Mahmura in Sud Kurdistan (Nord Iraq)
Un campo per non partire (da un articolo di Dino Frisullo pubblicato su “Il Manifesto il 25 aprile 2001)
Nel 1996, Hogir Heci Destani aveva cinque anni, giocava fra le tende, nella verde vallata montana di Atrush. L’anno dopo, fra le stesse tende piantate nella polvere assolata di Ninowa, l’antica Ninive, gli occhi del piccolo Hogir e di migliaia di bambini seguirono stupefatti il gruppetto di italiani e tedeschi che li avevano finalmente
raggiunti dalla Siria, passando il Tigri e un’infinita serie di posti di blocco del Pdk di Massud Barzani. Era la prima delegazione straniera a raggiungere il popolo in fuga da quattro anni dal Kurdistan turco, attraverso i monti e poi sempre più giù nella valle
della Mesopotamia.
Oggi Hogir ha dieci anni. Il suo nome figura in una lista di malati gravi, compilata da Heyva Sor, la Mezzaluna Rossa kurda. Tredici tubercolotici ed otto casi di cancro. Il più giovane è lui, leucemico da due anni. Anche gli altri tumori sono insorti negli ultimi anni, dopo che il campo profughi nel ’98 si spostò ancora più a sud, fino a sfidare il divieto dei militari iracheni, a passare il 30° parallelo e ad attestarsi a Mahmura, nella provincia kurda di Mossul controllata dal governo di Baghdad. Al riparo dalle incursioni dei turchi e dei loro alleati kurdi, ma non dalle mine e dal fall out radioattivo, eredità della guerra del Golfo. Del resto è possibile che il cancro covasse nel corpicino di Hogir fin da quando, a due anni di età, tremava in braccio a sua madre nel grande esodo di trentamila kurdi fra le nevi delle montagne del Botan, inseguiti dal fuoco degli elicotteri che avevano raso al suolo i loro villaggi. Dal cielo piovevano proiettili all’uranio impoverito, oltre alle armi chimiche e al napalm. Morirono oltre trecento e seicento furono feriti dalle bombe, dal gelo e dalle mine, in quel tremendo marzo del ’94.
Mahmura è in pieno deserto, a 400 chilometri da Baghdad e ad oltre 100 dal capoluogo Mossul. La più vicina fonte d’acqua potabile costa un’ora di cammino, a parte il raro arrivo di autobotti dell’Onu. Dispersi per disperazione due terzi dei trentamila iniziali, oggi a Mahmura vivono 8.500 profughi, di cui oltre mille bambini sotto i 4 anni di età e 4 mila tra i 5 e i 17 anni. Solo le scarse razioni dell’Onu e il generoso aiuto delle famiglie kurde dell’area consentono al campo di sopravvivere, nella generale penuria dovuta all’embargo.
Alle patologie endemiche, respiratorie d’inverno e gastroenteriche d’estate, risponde la piccola infermeria gestita da due soli medici e da infermieri volontari, e un’ambulanza inviata nel ’96 dalla Germania insieme a 48 tonnellate di medicinali: il governo giordano trattenne metà dei medicinali, e cinque anni dopo bloccò altri materiali sanitari e una seconda ambulanza inviata dalla Francia. Alle tende, con i materiali forniti dall’Onu e dal governo iracheno, si sono sostituite catapecchie in muratura simili a quelle dei campi palestinesi di Gaza.
Nel dicembre del ’99, dopo l’annuncio della tregua unilaterale del Pkk, i profughi di Mahmura chiesero all’Onu di poter tornare “per contribuire al processo di pace”. Ma ad alcune condizioni: garanzia internazionale, ricostruzione dei villaggi, amnistia, abrogazione dello stato di emergenza, educazione dei bimbi in lingua kurda. Non c’è stata risposta. L’ultima delle quattro condizioni è imprescindibile, per il popolo di Mahmura. Più importante della vita stessa. Perché Hogir e migliaia di suoi coetanei hanno avuto, fra tende e baracche, il privilegio di poter studiare nella loro lingua madre, oltre ad apprendere il turco e l’inglese, nelle quattro scuole primarie (una dell’Onu, tre autogestite) e nel liceo del campo. Ognuno dei tremila studenti attuali ha in media una matita, mezzo quaderno e una frazione di qualche vecchio sussidiario di scuola in turco e dei “libri” scritti a mano in kurdo, ma il “sindaco”, i quattordici “assessori” e i 60 insegnanti volontari di Mahmura tengono a quelle scuole più che alle loro casupole: “E’ il primo angolo di Kurdistan libero”, dicono con orgoglio.
Lo stesso orgoglio che ha portato l’Onu a minacciare l’abbandono del campo: non sono profughi normali, dicono i funzionari, troppo politicizzati, rifiutano non solo il rimpatrio alle condizioni turche, ma anche l’espatrio in Europa alle condizioni dei mercanti mafiosi.
Preferiscono sopravvivere nell’inferno, coltivando la dignità dell’esilio e la speranza di un ritorno…