LIBERI TUTTI
REPORT DELLA DELEGAZIONE ITALIANA AI PROCESSI A DIYARBAKIR 0TTOBRE 2011
Alle 8 del mattino andiamo verso il tribunale e subito, all’imbocco di quella strada, un blindato e un pulman carico di poliziotti fanno bella mostra di sé. Il palazzo di giustizia appare completamente transennato, con i poliziotti schierati a 2-3 metri l’uno dall’altro. Di fronte, due camion cisterna e altri 4 pulman carichi di poliziotti. Sulla sinistra, due plotoni di militari in tenuta antisommossa e altri mezzi blindati. Sugli altri lati, continua il cordone di sicurezza e tutti gli ingressi e gli spazi interni del tribunale sono presidiati da centinaia di altri poliziotti. Un migliaio di persone attendono pazientemente di vedere quello che succederà fin dalle prime battute e molti provano ad entrare nell’area del tribunale ma vengono respinti. Un dirigente del BDP chiama i primi osservatori che potranno entrare (a noi toccherà domani) mentre un elicottero militare sorvola l’area. E’ Medeni Kirici che fu anch’esso arrestato 4 anni fa a Bingöl e condannato ad un anno di carcere (che ha scontato) perché durante un comizio aveva menzionato Ocalan chiamandolo Mister, termine ritenuto troppo onorevole dagli inquirenti.
Arrivano i pulman dei prigionieri. Dalle piccole fessure in alto, che non si possono chiamare finestrini date le misure, si vedono le mani alzate nel segno della V, il segno della resistenza. Altri blindati scortano i pulman e mentre questi vengono introdotti nella parte retrostante, i primi restano fuori minacciosi. Arrivano Selim Sadak, già compagno di carcere di Leyla Zana, premio Sakarov per la pace. Poi arriva Demirtaş, il presidente nazionale del BDP, e con lui la co-presidente Gülten Kisanak e altri dirigenti. Poi é la volta di Osman Baydemir, il sindaco di Diyarbakir, che arriva assieme a Leyla Zana. C’é anche Akin Birdal e Hamit Geylani, ora entrambi parlamentari. E’ presente anche la ex “parlamentare europea” kurda eletta in Germania, Feleknas Uca.
Dentro, il largo corridoio conterrà centinaia di persone tenute però ben distanti dalla sala dell’udienza. La polizia controlla che non vengano superati i limiti consentiti. Un poliziotto urla, senza megafono, le sue richieste d’ordine ma chi parla col vicino (e tutti lo fanno) urla a sua volta più forte per farsi sentire. C’ è una gran baraonda. Ma quella sala di un’ottantina di posti non può contenere tutti e i più restano fuori.
All’esterno, intanto, si è radunata una folla di molte migliaia di persone che riempie la piazza davanti alla Municipalità posta a fianco del Tribunale, e invade anche la strada a due larghe corsie separate da vaste aiuole di prato e fiori. Ma slogans e canzoni sembrano dare molto fastidio, dato che la polizia, a questo punto, accenna ad intervenire. Infatti i poliziotti indossano i caschi e in pieno assetto d’attacco si schierano di fronte alla folla con un mezzo blindato dietro la prima fila. Decidiamo in fretta e ci precipitiamo per attuare una azione di interposizione pacifica. Rivolgiamo il nostro striscione colorato, con la scritta “Liberi tutti”, verso i poliziotti che avanzavano e si posizionano davanti ai primi manifestanti. Segue una lunga discussione con i loro dirigenti che insistono nel volerci allontanare mentre noi rispondiamo di non potere perchè siamo lì per la pace, per contribuire ad evitare incidenti. Sono minuti inteminabili ma alla fine la polizia desiste ed il blindato arretra. Quindi parte un
lungo applauso e poi con i Kurdi si canta ‘Bella Ciao’. Per ora si è vinto. Ma dopo un pò viene fatta richiesta di lasciare libero il traffico per consentire il passaggio delle ambulanze. In realtà la polizia aveva fatto avanzare le auto che all’imbocco della strada venivano prima dirottate in altre direzioni. In testa è apparso un pulmino il cui conducente asserisce di dover andare verso un ospedale, anche se sul mezzo non sembra vi siano persone sofferenti. La scusa è vecchia ma è sempre buona. E poi abbiamo già incassato un ottimo risultato. I nostri amici kurdi decidono di lasciare libero il traffico in una corsia della strada e la folla si assiepa sui larghi marciapiedi, sulla piazza del municipio e sulla rimanente corsia. Così anche il comandante della polizia incasserà un risultato utile, pensiamo, e non perderà completamente la faccia con i suoi superiori. Si va avanti così e fra la gente spuntano anche le bandiere con i simboli del PKK e il volto di Öcalan portato da applauditissimi ragazzi con il volto prudentemente coperto. Sembra tutto procedere nel migliore dei modi e la mobilitazione popolare appare vincente quando un’auto scura e di grossa cilindrata passa a velocità elevata sfiorando le persone che devono attraversare o che stanno ai bordi della corsia libera.
E’ però costretta a fermarsi al semaforo successivo, bloccato da altre auto in attesa del verde. Qui viene raggiunta da almeno cento, forse duecento persone, che in breve le provacano seri danni prima che riesca ad allontanarsi. La provocazione scalda gli animi dei più giovani che tentano di occupare l’intera carreggiata, prima lasciata libera, sotto gli occhi minacciosi della polizia. I più grandi intervengono e i giovani vengono dissuasi. I più aggressivi fra i poliziotti fremono ma anche questa volta restano senza vittime.
18 OTTOBRE 2010 POMERIGGIO
Nel pomeriggio, mentre in tribunale proseguiva il processo, la piazza si riempiva all’inverosimile fino a rioccupare il lato della strada precedentemente liberato. La polizia questa volta non è intervenuta, una parte delle squadre antisommossa e dei blindati rientravano nelle caserme. Questa volta la forza e la compostezza del popolo kurdo hanno avuto la meglio. Lasciamo la piazza dopo le ore 18 perchè impegnati in un incontro con Selhattin Demirtas.
Il presidente ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Questo é un processo cruciale per il popolo kurdo. Ringrazio tutte le delegazioni presenti che hanno svolto oggi un ruolo importante; e questa è già una prima vittoria.
Gli amici che sono venuti dall’Europa non sono arrivati qui solo per vedere, ma per svolgere un ruolo di sostegno per il kurdistan e di stimolo per l’intera Europa. Per questo motivo il processo ha creato anche una opportunità di solidarietà tra noi e quel mondo che si batte per la giustizia e i diritti umani. Questo è molto importante perchè rappresenta una opportunità di cambiamento.
Essendo l’aula del tribunale troppo piccola per contenere tutti, hanno deciso di costruirne una nuova e più grande, parallelamente anche alla progettazione di un nuovo carcere a Diyarbakir, per contenere tutti i nuovi detenuti.
Coloro che hanno oggi seguito il processo, hanno potuto constatare che la Corte si è comportata in maniera ambigua, in modo apparentemente accomodante, perchè sa bene che tutto il mondo li sta osservando.
I Giudici hanno fatto l’appello e gli imputati hanno risposto in kurdo. Gli avvocati hanno chiesto di ritirare l’atto d’accusa (composto di ben 7.000 pagine!) ed hanno contestato la legittimità stessa dei capi di imputazione. Gli avvocati della difesa hanno dichiarato che intendono svolgere la difesa in kurdo; la Corte si è riservata di decidere rinviando all’udienza di domani.
La Corte potrebbe: A) accogliere le richieste degli avvocati; B) riassumere in 900 pagine i capi di imputazione; C) non decidere sull’uso della lingua e qualora gli imputati parlassero in kurdo o acconsentire o vietarne l’uso.
Al termine di ogni singola udienza gli avvocati chiederanno la liberazione degli imputati, costringendo i Giudici a pronunciarsi sul punto. Per il 12 novembre è prevista la chiusura di questa fase processuale, ma riteniamo ci siano poche possibilità che le decisioni prese siano quelle auspicate.
Se il processo non dovesse concludersi in tempi brevi chiediamo alle delegazioni internazionali di proseguire con l’attività di sostegno. Anche dalle città vicine arriveranno a Diyarbachir molte persone per manifestare il loro appoggio agli imputati”
Un parlamentare inglese interviene per ringraziare, sottolineando la chiarezza della difesa degli imputati, evidenziando che questo non è un processo con contenuto tipicamente penale ma spiccatamente politico.
Selhattin Demirtas risponde che, in realtà si tratta di un processo politico, che ci sono 1.500 persone sotto giudizio e che questo di Diyarbakir riguarda 103 imputati, ma vi sono processi anche a Sirt, Adana , Batman, mentre qui a Diyarbakir gli imputati sono stati processati più tardi degli altri. Questo di oggi è quello principale, gli altri processi sono collegati a questo.
19 OTTOBRE 2010 – NELLA PIAZZA ANTISTANTE IL TRIBUNALE
Stamane, come ieri mattina, ci siamo recati di fronte al Tribunale con il grande striscione colorato (“Liberi tutti” in italiano, kurdo, turco e inglese), c’era moltissima popolazione kurda, ed anche una folta presenza di giornalisti di quotidiani, televisioni, radio.
La nostra delegazione si è divisa in due gruppi: un gruppo è entrato nell’aula del tribunale, dove ha seguito direttamente lo svolgimento del processo; un altro gruppo è rimasto fuori, tra la gente.
Il presente report si riferisce a tale secondo gruppo ed a quanto accaduto fuori del tribunale; quello successivo esporrà dettagliatamente ciò che è successo dentro l’aula; qui anticipiamo solo che lo svolgimento odierno del processo ne fa una giornata di importanza ‘storica’.
Il clima di fronte al tribunale era assai movimentato, con un forte spiegamento di polizia.
Poi, come ieri, è arrivato il blindato della polizia che portava al processo i detenuti imputati, ma con una novità: infatti, mentre nella giornata di ieri, essi avevano fatto il saluto kurdo con le dita a “V” sporgendole fuori dei piccolissimi finestrini dei blindati, e le foto di questo loro saluto erano state pubblicate sulla prima pagina del quotidiano kurdo “Günlük”, suscitando una forte reazione emotiva, oggi, per evitare che ciò si ripetesse, i finestrini erano chiusi!
La nostra presenza poco dopo (verso le 9,30) ha suscitato una dura reazione della polizia, in tenuta antisommossa, che ci ha intimato di allontanarci. Al nostro rifiuto, hanno abbassato le visiere degli elmetti e cominciato a spintonarci, a spingerci contro le transenne metalliche della strada, e, di fonte alla nostra resistenza, a stringerci ed ‘imbottigliarci’. Abbiamo risposto intonando, come ieri, “Bella Ciao”.
Poi ci siamo trasferiti di fronte al Municipio, dove, verso le 13, Antonio Olivieri ha tenuto una conferenza-stampa, a nome della delegazione italiana, conferenza stampa che è stata trasmessa, in italiano e in turco, sulle televisioni e radio di 25 Paesi e vista dagli stessi imputati nell’aula del tribunale, durante una pausa dell’udienza.
Questo il testo del messaggio letto da Antonio Olivieri:
“Roj Baş Kurdistan!
Siamo qui per sostenere i vostri, e nostri, amici che sono in carcere da mesi. Sono sindaci, amministratori, dirigenti di associazioni, semplici militanti. Sono donne e uomini che tutti i giorni hanno lavorato con il popolo, lo hanno ascoltato, hanno costruito insieme a loro i servizi essenziali – fognature, acquedotti, strade, centri sanitari - in citta’ e villaggi dove mancava tutto, hanno praticato la democrazia dal basso.
E’ per questo che li hanno arrestati. E’ per questo che li tengono in carcere da 17 mesi.
Vogliono ridurli al silenzio, vogliomo mettere loro il bavaglio, vogliono tenerli lontani da voi, dal loro popolo. L’accusa di terrorismo è una farsa, è un’ignobile bugia.
Questo governo ha una grande responsabilita’: ha costruito, con una montagna di false accuse, un processo politico contro la societa’ civile kurda.
Bisogna gridarlo forte a quest’Europa silente e affarista, pretendere che sia presente qui con i suoi rappresentanti, anche con i Suoi governi, oltre che con noi internazionalisti!
Abbiamo consegnato agli avvocati della difesa ordini del giorno e comunicati di solidarieta’ da parte dei comuni e delle provincie italiane e questo materiale dovra’ far parte degli atti del processo.
Questa municipalita’, il Comune di Diyarbakır dove stiamo a migliaia, è la casa del popolo, luogo d’incontro e di lotta, cosa impensabile altrove.
Conservatela questa ricchezza: insegna molto anche a noi europei.
Tornando in Italia porteremo con noi la solidarieta’ e l’orgoglio del popolo kurdo, i colori e i fiori di questa terra meravigliosa, una terra che da 27 anni conosce solo guerra e massacri. E’ tempo di gridare: “Basta! Edi bese”. Ora è il tempo della pace: la dobbiamo fare, la vogliamo fare, per voi, per noi, per l’Europa, per il mondo intero.
Spas!”
19 OTTOBRE 2010 – SECONDA GIORNATA DEL PROCESSO
Secondo giorno di udienza e prime interessanti schermaglie da raccontare.Entriamo in aula e ci troviamo l’emiciclo pieno di detenuti circondati dalla gendarmeria armata.
Gli avvocati sono sui due lati, su più file di piccole scrivanie. Il pubblico si trova di fronte al collegio dei Giudici coperti dai numerosi detenuti. Lo spazio per il pubblico, per i parenti e le delegazioni estere è molto ridotto in proporzione all’aula che è di circa 200 metri quadri.
Tutti ci salutano e fanno cenno di aver capito chi siamo. La felicità dei detenuti, uomini e donne, è disarmante; sono contenti di vederci e per un attimo dimenticano di essere chiusi in carcere da 18 mesi, in condizioni di isolamento e costretti a difendersi da accuse tanto inesistenti quanto gravissime.
La Corte di Assise, per niente popolare, perchè composta da tre giudici togati, è una Corte Speciale per reati di mafia e terrorismo e fino a pochi anni fa si fregiava anche di giudici militari. Il Pubblico ministero siede al loro fianco accompagnato da numerosi faldoni che formano gli atti di accusa. Oggi i giudici devono sciogliere la riserva su due richieste proposte dagli avvocati:
-1- che gli imputati possano difendersi in lingua kurda, come previsto dai Trattati internazionali (art. 39 del Trattato di Losanna del 1923) che prevedono il diritto di difesa nella propria lingua madre;
-2- che il capo di imputazione, composto da circa 7000 pagine possa essere ridotto a 900 e permettere di svolgere il processo in tempi brevi.
Un grande schermo permette di seguire anche ciò che avviene vicino alla Corte.
Assistiamo all’appello degli imputati (103 detenuti e 48 liberi) e a quello degli avvocati (150, per lo più costituiti in collegio per tutti i detenuti).
Poichè la maggior parte dei detenuti e delle detenute sono amministratori di Enti Locali (Comuni e Province del Kurdistan) e sono Sindaci di città che svolgono attività politica da molti anni, i loro volti sono sereni e per niente intimiditi dall’apparato poliziesco che li circonda; le donne sono fiere e guardano gli uomini dritto negli occhi e, se si girano verso il pubblico, sorridono dolcemente, quasi ringraziandoci della presenza; un velo copre i loro occhi solo quando volgono lo sguardo verso i familiari che sono giunti da tutti i centri del Kurdistan, dopo averli seguiti in tutte le carceri della Turchia, quelle speciali, con misure di sicurezza differenziate da quelle degli altri detenuti. La Corte rifiuta entrambe le richieste proposte dalla Difesa e decide di procedere nella identificazione degli imputati. Gli Avvocati lamentano che i loro avvocati-praticanti di studio non sono stati autorizzati ad entrare in aula. La Corte ribadisce il divieto senza motivare.
Si procede all’identificazione di ciascun imputato ma, appena questi cominciano a dire il proprio nome e indirizzo in Kurdo, vengono interrotti dal Presidente che preferisce leggere lui stesso, nome e cognome, pretendendo solo un sì o un no. La risposta è sempre in Kurdo. Gli imputati non accettano il divieto di parlare in Kurdo e cominciano a parlare la loro lingua. Il pubblico sorride rumorosamente, ma i giudici imperterriti continuano a leggere in turco e gli imputati a rispondere in Kurdo. Un imputato si giustifica per non poter parlare in Kurdo, perchè esiliato e quindi a conoscenza della sola lingua turca. Fuori dall’edificio del Tribunale le delegazioni continuano a manifestare la loro solidarietà con canti e danze che ricordano la vita dei partigiani in montagna e invitano a partecipare alla lotta per la liberazione del popolo kurdo. Gli imputati usano le varie espressioni del Kurdo moderno, a seconda delle zone di provenienza. In questo modo continuano a rispondere ed essere interrogati dal Presidente, il quale, con costanza, legge le loro generalità in turco.
Ormai si tratta di una farsa che travolge la Corte e rende “nudo” il Tribunale e le sue leggi che impongono regole inutili e ridicole. E’ una prima vittoria per il Collegio di Difesa degli imputati, che hanno imposto la propria lingua nonostante i divieti e le ipocrisie di un Governo che nella Costituzione ha autorizzato l’uso della lingua kurda, ma di fatto, la vieta a proprio piacimento.
Mai più un Kurdo parlerà in turco nei Tribunali, dove si accusa un popolo per la propria appartenenza etnica.
Questo processo segna una svolta storica nella strategia di liberazione del popolo kurdo. Vediamo alternarsi davanti ai Giudici, i Sindaci dei paesi che sono stati privati di intere amministrazioni liberamente elette dai cittadini. Fra questi il Sindaco di Sirnak, il Sindaco di Batman, di Erzani, di Urfa, quello di Kiziltepe (Mardin), poi ancora il Sindaco di Viransceve (Urfa), la Sindaca di Bostanici, il Sindaco di Hakkari, i Presidente della Società Statale dell’Erogazione dell’Acqua.
Come già detto, qualche imputato parla in turco, giustificandosi perchè non conosce il kurdo, essendo stato deportato fuori dal proprio paese fin da piccolo. Altri ascoltano il proprio nome e indirizzo in lingua turca, poi dichiarano “esatto”, “non è esatto” in kurdo. Uno dichiara di non conoscere il kurdo ma non vuole parlare in turco quindi invita il Presidente a leggere lui
stesso le generalità di ognuno.
Non con poche difficoltà il Presidente termina di leggere tutte e 103 le generalità dei detenuti, sudando e sbuffando in continuazione.
Le donne, serene e altere, affrontano la Corte con estrema dignità e confermando il carattere fiero del proprio popolo e la volontà di continuare ad affermare il proprio diritto ad esistere.
Muhammed Erbey , avvocato che difese Dino Frisullo quando fu arrestato al Newroz di Diyarbakir del 1998, appare provato, con i capelli grigi e con un portamento meno autorevole di un tempo. E questo nonstante l’età ancora relativamente giovane. Personaggio notissimo in ambito forense e non solo per essere stato per anni il Presidente dell’Associazione dei Diritti Umani (IHD) proprio a Diyarbakir.
D’altra parte sembra che questa importante carica internazionale non sia motivo di interesse (e vanto) in Turchia visto che l’attuale Presidente del medesimo organismo si trova proprio tra i detenuti di oggi nell’Aula della bella e antica città di Diyarbakir.
Molto duro il giudizio del collegio di Difesa riguardo ai contenuti del processo stesso. L’operazione “KCK” (Koma Civakên Kurdistan, Confederazione del popolo del Kurdistan) è stata definita dagli avvocati che difendono gli imputati come un’azione di annientamento della società civile kurda ed, in particolare, di azzeramento della sua viva vita politica.
Le accuse vengono lette dal Pubblico Ministero che non si limita a leggere gli articoli del Codice che si presume siano stati violati, ma descrive le operazioni di Polizia svolte ed esprime le proprie considerazioni sulle abitudini politiche degli imputati e delle organizzazioni da loro frequentate.
La relazione dell’accusa è, comunque, ridotta a 900 pagine, anche se l’utilizzo di tale riduzione chiesto dalle difese, era stato ufficialmente rigettato. Ancora una volta si rivela l’inutilità della norma formale e si afferma la praticità della norma sostanziale da parte del potere che utilizza il diritto a su piacimento.
La giornata si è infine chiusa con la richiesta di liberare tutti gli imputati secondo il principio di diritto di libertà, fondamentale criterio secondo il quale deve essere salvaguardato un principio primario rispetto a qualsiasi esigenza di carattere procedurale. I Giudici si sono riservati di comunicare la loro risposta nella mattinata di domani.
20 0TTOBRE 2010 – TERZO GIORNO DI UDIENZA AL PROCESSO
"Li virim"
Verso le 10, dopo le perquisizioni personali oggi più approfondite del solito, entriamo nell’aula bunker. Avvertiamo immediatamente un clima più teso e cupo dei giorni precedenti. Il presidente apre l’udienza con l’appello degli imputati che rispondono in kurdo “li virim”, “presente”. Gli avvocati danno la loro presenza ed uno di loro parla in kurdo. Prende immediatamente la parola l’avv. Ercan Kanar, protestando fermamente sulle modalità di svolgimento del processo. Contesta in particolare la presenza in aula del reparto speciale di polizia antiterrorismo in aggiunta agli agenti di polizia penitenziaria che circondano completamente gli imputati, isolandoli dai difensori, posti ai lati, e dal pubblico, alle loro spalle: “La massiccia presenza della polizia antiterrorismo viola il principio di democrazia che qui bisogna rispettare. Tale schieramento esercita una pressione non solo sulla Corte ma sugli stessi imputati, già provati dalla lunga detenzione in regime speciale; pressione aggravata dalla presenza di due assistenti del pubblico ministero non previsti dal codice di procedura penale. Vi abbiamo anche chiesto di non leggere l’atto di accusa, che tutti conosciamo, e voi continuate, perdete inutilmente tempo, abbattendo l’umore degli imputati, che vedete come oggetti e non come soggetti”.
Nel silenzio della Corte, che non degna di risposta gli avvocati neppure sull’istanza di scarcerazione avanzata ieri, il PM ricomincia imperterrito a leggere l’atto d’accusa, come se non avesse ascoltato nulla, mentre le forze dell’ordine presenti in aula intensificano il via vai con frequenti cambi della guardia, disorientando imputati, difensori e pubblico.
Fino a quando erano presenti i parlamentari e le delegazioni internazionali, tra la Corte da un lato e i difensori dall’altro sembrava ci fosse una certa interazione, ma da oggi è palese un muro contro muro, un dialogo tra sordi. Gli avvocati fanno istanze e proteste, la Corte finge di non aver sentito, il presidente fa l’appello e gli imputati rispondono in kurdo. La lettura del PM assopisce l’aula ed un’altra udienza passa inutilmente per la difesa, ma profiquamente per l’accusa, che mira a mantenere in carcere gli imputati il più a lungo possibile.
In "sala avvocati" incontriamo uno dei difensori degli imputati, l’avv. Dogan Erbas, membro del collegio di difesa di Ocalan il quale gentilmente risponde alle nostre domande. Ci spiega che dopo la lettura dell’atto d’accusa, gli imputati faranno le loro dichiarazioni, che ci anticipa saranno in kurdo; aggiunge che questo stesso collegio tre mesi fa aveva acconsentito, in un processo analogo, a carico di un avvocato, che l’imputato si esprimesse in lingua kurda con l’ausilio di un inteprete, crede che in questo caso ciò non sarà possibile anche per il gran numero di imputati. Nel caso in cui gli imputati si esprimano in kurdo senza il consenso della Corte le loro dichiarazioni potrebbero essere reputate non utilizzabili nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, la Corte potrebbe ordinare l’allontanamento dall’aula degli imputati che sarebbero accusati di intralcio alla giustizia.
L’avvocato ribadisce poi la valenza politica di questo processo su cui pesa la presa di posizione del Governo in relazione alla questione kurda.
Gli chiediamo quanto tempo hanno avuto per preparare la difesa e lui risponde che, dal momento in cui hanno potuto vedere tutti gli atti del processo, sono passati 4 mesi, che hanno organizzato un collegio di difesa e ciascun avvocato si è occupato della posizione di alcuni imputati, fermo restando il raccordo con gli altri colleghi.
Si dice pessimista sui tempi e sull’esito della richiesta di scarcerazione, come pure sull’esito finale del processo.
L’avv. Dogan Erbas ci dice che non sono previsti termini massimi di custodia cautelare in carcere, per cui gli imputati in attesa di giudizio possono rimanere in stato di detenzione anche per molti anni.
I reati contestati ad alcuni imputati sono “separatismo”; ad altri “favoreggiamento al reato di separatismo attraverso azioni di propaganda e sostegno”, ad altri ancora, il reato di “partecipazione a manifestazioni non autorizzate”.
A suo parere le condanne saranno molte. La pubblica accusa ha richiesto per 10 imputati la pena dell’ergastolo; per altri 25 imputati una pena dai 15 ai 35 anni; per un gruppo tra le 30/35 persone la condanna da 5 a 15 anni di reclusione, per i rimanenti da 3 a 5 anni, e comunque il numero di condannati sarà di circa un centinaio.
In merito alle domande su Ocalan, l’avv. Dogan Erbas riferisce che il CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura) ha pubblicato di recente un rapporto sulle condizioni di detenzione di Ocalan nel quale, pur rilevando alcuni piccoli miglioramenti, ha evidenziato che le condizioni carcerarie non si sono conformate alle loro precedenti raccomandazioni: i detenuti inviati ad Imrali avrebbero dovuto essere 99 e non solo 5, le ore di socializzazione avrebbero dovuto essere 90 settimanali, come nelle altre carceri e non 35. Ocalan può avere accesso alla lettura di un quotidiano solamente il martedì ed il venedì tra i due scelti dalla direzione carceraria. L’ascolto della radio è limitato ai soli canali di Stato. La nuova cella di Ocalan ha le stesse dimensioni della precedente, pari a 12 mq, è priva di luce naturale; nelle sole due ore d’aria giornaliere ha accesso ad un cortile, nel quale non arriva il sole, perchè circondato da alte mura sormontate da una fitta rete metallica.
Le visite mediche sono effettuate da un medico generico sempre diverso per cui è impedito un rapporto personale medico-paziente, ed, in caso di necessità, manca la possibilità di un pronto intervento.
Rispetto al passato i familiari e gli avvocati hanno minori difficoltà a raggiungere l’isola.
Il ricorso alla Corte europea sulle condizioni di detenzione di Ocalan è stato dichiarato ricevibile ed il Governo turco e gli avvocati hanno già depositato memorie e repliche richieste e si è in attesa della decisione. L’avvocato ritiene che l’applicazione della auspicata decisione favorevole della Corte dipende da quanto l’opinione pubblica internazionale sarà attenta ed incisiva nell’indurre il Governo turco ad adempiere. L’attività dei difensori viene di fatto costantemente ostacolata con processi e condanne a loro carico.
20 OTTOBRE 2010 - PIAZZA DEL MUNICIPIO
Al presidio davanti al tribunale, erano presenti centinaia di persone. La delegazione italiana ha deciso di mostrare lo striscione in modo itinerante, girando per la piazza ed attestandosi davanti al palazzo del municipio. Alle 14, sono arrivate le Madri della Pace che hanno voluto sorreggere lo striscione per circa un’ora tra canti di lotta e danze collettive. La delegazione lo ha, poi, ripreso e rivolto verso il tribunale; così la scritta “Liberi tutti” è diventata un messaggio per i detenuti. A questo punto, però, la polizia ha cominciato ad indossare le uniformi antisommossa e, subito dopo, ha fatto infiltrare tra la gente della piazza un poliziotto che aveva già fotografato i presenti; costui è stato riconosciuto ed inseguito fino al cordone di Polizia con conseguente lancio di bottiglie di plastica vuote da parte dei ragazzi più giovani. Il servizio d’ordine del BDP, mediando con la polizia, ha energicamente bloccato gli eccessi, invitando tutti a tornare all’interno della piazza. Il presidio si è così ricompattato e, a quel punto, lo striscione è stato posizionato come confine tra i due schieramenti.
Verso sera, lo stesso striscione, ormai “famoso”, è stato lasciato ai compagni kurdi in ricordo di queste giornate.
20 OTTOBRE 2010 – INCONTRO CON LA COORDINATRICE DI SELIS WOMEN ASSOCIATION, PERIHAN KAYA
Selis è una parola che in lingua “farsi” significa mostrare la strada, mentre nell’antica lingua dei sumeri vuol dire luminosità.
Fondata nel 2002, Selis è stata la prima associazione di Diyarbakir ad occuparsi del problema dell’oppressione della donna e, nello specifico, della violenza di cui sono vittime in famiglia e nella società. Hanno la loro sede a Diyarbakir, ma svolgono l’attività anche a Batman e ad Ergani.
Nell’associazione lavorano solo donne e sono tutte volontarie. Il loro lavoro consiste nel sostegno psicologico e legale alla donna, la visita nelle case, l’educazione e la formazione, la predisposizione di progetti contro la violenza di genere.
In alcuni distretti cittadini, esistono famiglie che mettono a disposizione la loro abitazione affinché l’associazione possa svolgere le attività proprie con le donne.
L’Associazione ha a disposizione due case protette, una donata dallo Stato e l’altra privata, per la protezione delle donne maltrattate o in pericolo.
Se una donna deve abortire, deve avere il permesso del marito; se non è sposata, deve prendere l’autorizzazione dal giudice. L’aborto è garantito gratuitamente dalla struttura sanitaria per le minorenni in possesso del permesso del giudice; per le altre donne, l’aborto è a pagamento.
E’ solo da pochi anni che ci sono anche dottori kurdi; prima erano solo turchi e le donne non potevano esprimersi, anzi diffidavano di questi dottori perché sospettavano di essere vittime, a loro insaputa, di programmi di sterilità!
La situazione dell’area kurda è particolarmente problematica per le donne: sradicate, spesso senza alcun supporto da parte del marito, in una situazione di stato di guerra permanente, cadono in profonda depressione e, non sono pochi i casi, in cui compiono gesti inconsulti (alcune sono arrivate a buttare i loro bambini nei bidoni dell’immondizia!). Nei villaggi, la donna era molto più libera; al contrario, oggi, molte donne arrivano in città e non escono più da casa!
20 OTTOBRE 2O10 – INCONTRO CON IL SINDACO DI SUR, ABDULLAH DEMIRBAS
In apertura, sono stati consegnati i fondi ( € 1000,00) di Europa Levante. Il sindaco ci ha chiesto di destinare questo denaro all’acquisto di libri per la costituenda biblioteca del campo profughi di Mahmura dove questo progetto verrebbe realizzato con la municipalità irachena di Duhok. Ci dice che nel processo ai 151 imputati, il PM ha chiesto in totale 3.000 anni di carcere; per il Sindaco di Sur, in particolare, ha chiesto 25 anni, che sommati a quelli richiesti negli altri processi svolti, diventano 173 anni di carcere.
E’ una situazione molto preoccupante perché gli arresti avvengono all’indomani del cessate il fuoco da parte del PKK.
E’ utile ricordare che sono in carcere circa 2.500 persone, di cui il 60% sono dirigenti del partito BDP, i restanti sono sindaci, amministratori, dirigenti di Ong...
Questo processo è importante perchè qui si palesa lo scontro tra la politica kurda e l’ideologia ufficiale dello Stato. I diritti dei kurdi sono sempre stati negati, è stata negata la loro lingua e la loro cultura.
“Noi al contrario abbiamo sempre sostenuto che i kurdi esistono e la loro lingua esiste. Per cui veniamo accusati di essere separatisti” – ci dice il Sindaco, Demirbas.
E continua: “Abbiamo visto massacri, evacuazioni di villaggi. Per questo motivo, i nostri figli hanno reagito, sono partiti, e sono diventati guerriglieri. Anche mio figlio è partito a 16 anni ed è diventato guerrigliero. Aveva una condanna a due anni e sei mesi e dopo la condanna ha deciso di reagire e partire per la lotta armata. Una situazione che si è complicata per la mia famiglia se si pensa che anche lo zio di mio figlio (fratello di mia moglie) si è trovato sotto servizio militare, però dalla parte turca. Oltretutto, ho un figlio leggermente più grande che dovrà partire per il servizio militare. Per cui, uno sarà guerrigliero ed l’altro soldato dell’esercito turco”.
Il sindaco fa veramente fatica a pensare a questo dramma che lo tocca così da vicino, anche se si tratta di una situazione comune a molte famiglie del Kurdistan . Prosegue il Sindaco Demirbas, con una frase molto netta: “Noi politici kurdi vogliamo pace, democrazia e libertà ... ma la risposta è stata il carcere. Chi mi ha arrestato era un poliziotto che - addirittura – era stato un mio studente”. Poi continua, con voce preoccupata, più che emozionata: “Tutti e due abbiamo avuto vergogna”.
Il messaggio ai Kurdi è stato chiaro: “Se fate lotta politica pacifica avrete come risposta...il carcere”. L’unica strada che rimane è (ri)salire in montagna.
Migliaia e migliaia di ragazzi kurdi sono pertanto senza speranza, provocando azioni e reazioni difficilmente prevedibili. Molto spesso le persone che sono in carcere non hanno mai imbracciato il fucile, ma vengono giudicate ugualmente per partecipazione alla lotta armata. La maggioranza dei Sindaci arrestati ha il 60% per cento dei voti da parte della popolazione. Per esempio il Sindaco Demirbas ricorda di aver avuto il 66% dei voti. Per questo, prosegue: “Voi state facendo un incontro con un ‘terrorista’! In realtà ciò che vogliono tutti gli amministratori sotto processo in questi giorni sono solo cinque semplici cose: pace, democrazia, libertà, eguaglianza di genere, rispetto per noi, la nostra cultura, le nostre tradizioni. E questo lo intendono raggiungere con una nuova costituzione, l’abbassamento dell’attuale soglia di sbarramento elettorale del 10%, l’utilizzo della lingua materna kurda in tutti i gradi dell’Istruzione a partire dalla Scuola Materna. Questo può avvenire solo e soltanto tramite l’ amnistia per tutti i detenuti politici”.
Man mano che procedono le operazioni del processo sono aumentati i momenti di tensione, con provocazioni a Van e a Diyarbakir (per esempio, un presunto allarme bomba in una via del centro di Diyarbakir, con conseguente impazzimento della già difficile circolazione stradale).
Il Sindaco Demirbas conclude dicendo: “la solidarietà per noi è molto importante perchè se non c’è nulla noi siamo molto più soli”. Si è anche manifestata una grande attenzione per le possibilità insite nel sostegno avuto dalle Province di Modena ed Ancona, da numerosissimi Comuni tra cui Nuoro e svariati comuni italiani, oltrechè dalla Lega Nazionale delle Autonomie Locali, in vista di future collaborazioni ed iniziative di cooperazione solidale. Si è anche fatto riferimento al sostegno avuto dal Presidente Sammuri di Federparchi Italia visto il coinvolgimento di alcuni amministratori kurdi interessati al comparto difesa dell’acqua/ difesa del patrimonio naturale, che fa presagire nuovi sviluppi collaborativi fra realtà italiana e kurdo-turca.
21 OTTOBRE 2010 – QUARTA UDIENZA
Dopo la pausa nella giornata di giovedi’ il processo é ripreso oggi, venerdi’ 21, ed é al suo quarto giorno.
İl BDP ha organizzato una marcia con partenza da Dağ Kapı (Porta della Montagna), la grande piazza vicino alla porta settentrionale delle mura – di fronte al Gran Güler - per le ore 10 del mattino. I partecipanti si sono riuniti davanti alle sedi del BDP del proprio distretto e poi di li’ con i pulmini si sono diretti alla piazza per l’incontro.
Mehmet ed io ci siamo presentati alle nove alla Casa del Popolo del nostro quartiere, Gaziler, che funge da sede di ritrovo e attivita’ per i simpatizzanti del BDP. Entriamo. Mehmet mi mostra un volantino attaccato al muro: é quello portato dalla delegazione italiana che mostra Dino Frisullo in Piazza Kurdistan, e racconta con orgoglio ai presenti che gli amici italiani e kurdi faranno una manifestazione il 13 novembre a Roma. Siamo circa una cinquantina di persone, la meta’ donne, nessun ‘giovane’, tutti adulti e anziani, le donne con i bambini. ‘Solo cinquanta, una volta saremmo stati almeno mille, ora i giovani non partecipano piu’ con il fervore di prima’ dice Mehmet. Da Gaziler, camminiamo insieme verso la sede del BDP del distretto cui Gaziler fa capo, Kayapınar. Qui’ veniamo accolti con un applauso dai presenti, poi ci infiliamo sugli autobus diretti al luogo dell’incontro.
La piazza non si é riempita del tutto, ma il gruppo é comunque numeroso (forse 5-600 persone) e assolutamente rumoroso. Vengono distribuite delle facce di cartone, maschere con la fotografia di uno dei sindaci sotto processo, tanti le indossano. Dopo aver cantato alcune canzoni ed esserci compattati, la marcia comincia. İl gruppo si divide in due parti, riempendo le due strade che parallele raggiungono lo spiazzo davanti alla Municipalita’ principale di Diyarbakır. Slogan, canzoni, ritmate da battiti di mani, su tutto prevale il grido ‘Biji Serok Apo’ e ‘Öcalan, Öcalan’. La strada é breve, saranno circa 7-800 metri, i due gruppi, come due affluenti confluiscono all’incrocio per gettarsi uniti nella piazza dove i presenti applaudono e si uniscono alle grida. Dall’autobus giallo, rosso e verde del BDP sı diffondono canzoni kurde, finalmente vedo ragazzi e ragazze: ballano glı halay, alcuni suonano, attaccano striscioni scritti in curdo agli alberi.
Da quando é cominciato il processo é la giornata con piu’presenze, lo spiazzo é finalmente pieno. Beviamo un çay. Una delle parlamentari del BDP attira l’attenzione della folla per una ventina di minuti. Parla degli ‘sviluppi’ del processo fino ad oggi –come il giudice si sia ‘dimenticato’ di rispondere alla richiesta di scarcerazione e della vuotezza e inutilita’ di giornate passate a leggere il capo di accusa che tutti gia’ conoscono-, attacca Erdoğan e il governo AKP e urla al governo e allo Stato di guardare oggi a quella piazza gremita di gente, quella piazza é un messaggio: ‘I curdi sono uniti e sostengono i propri rappresentanti’. Riprendono gli slogan: ‘Baskıları bizi yıldıramaz’ (“le pressioni non ci scoraggeranno”).