lunedì 10 ottobre 2005

Anche i Kurdi dovrebbero essere parte dei negoziati sull'ingresso della Turchia in Europa


Il 17 dicembre del 2004 il Consiglio europeo aveva deciso che il 3 ottobre 2005 si sarebbero avviati i negoziati fra Turchia e UE; la Repubblica turca si era impegnata ad avviare la democratizzazione e si era prefissa di risolvere i problemi sociali interni, invece, purtroppo, rispetto alle aspettative di tutti si può dire che ha fatto dei passi indietro. La questione più importante all’o.d.g. della Turchia è la questione kurda, ma in questo senso non sono stati fatti passi né democratici né pacifici, la questione si affronta ancora con una mentalità militare. Allo stesso tempo i passi che la parte kurda ha fatto per risolvere positivamente e con il dialogo la questione non hanno avuto nessun riscontro e nessuna risposta.

Nonostante che ultimamente il Presidente del Consiglio turco abbia dichiarato qualcosa di nuovo riguardo alla questione kurda, purtroppo ha dimostrato che non erano altro che semplici parole, che, per di più, sembra che abbia già dimenticate.

Nonostante che la parte kurda abbia risposto positivamente a queste nuove dichiarazioni riguardo la questione kurda, lanciando immediatamente un nuovo cessate il fuoco, i guerriglieri si sono visti ancora più attaccati e altre persone hanno perso la vita. Contemporaneamente, l’isolamento del presidente Ocalan si è aggravato ancor di più, tanto che non si riesce ad avere notizie da Ocalan, tenuto in regime di totale isolamento da più di sei anni.

Allo stesso tempo, le manifestazioni pacifiche che si sono tenute in questo periodo sono state attaccate sia dalle forze di sicurezza, sia dai nazionalisti turchi. La nuova legge antiterrorismo promulgata dal governo, nel quadro delle riforme legislative imposte dal processo di adesione, limita molto i diritti fondamentali e le libertà e sta riportando ai tempi in cui vigeva lo stato d’emergenza.

Una Turchia, che vorrebbe poter avviare i negoziati per entrare nell’UE, ancora oggi reprime circa 20 milioni della sua popolazione, non permettendogli di avvalersi dell’istruzione nella lingua madre e opprimendoli attraverso le tantissime pratiche incompatibili con i valori universali dei diritti dell’uomo, continuamente violati.

Nei negoziati tra Turchia e UE anche i kurdi sono ormai una parte da tenere in considerazione e per questo c’è bisogno di includerli nel percorso negoziale di adesione. Bisogna che si riconosca l’indispensabilità dei kurdi in questo percorso, affinché possa essere un percorso sano ed efficace.

Per tutto questo chiediamo che:

- in questo percorso negoziale si ascolti anche la voce democratica del popolo kurdo e si cerchi di risolvere la questione in maniera democratica e attraverso il dialogo

- sia riconosciuto il conflitto esistente e si assuma una linea politica di soluzione dello stesso portandola avanti nell’ambito del percorso negoziale

- visto l’isolamento in cui il leader del popolo kurdo, Abdullah Ocalan si trova da mesi, non riuscendo nemmeno ad incontrare i propri legali e aprenti, e viste le condizioni precarie di salute in cui versa, ci appelliamo affinché non si dimentichi l’asilo politico che ottenne in Italia e che quindi si faccia richiesta alle autorità competenti di farsi carico delle proprie responsabilità e di monitorare la sua situazione.

Ormai è noto che senza risolvere la questione kurda, la democratizzazione della Turchia non è possibile, per questo invitiamo gli ambienti democratici e pacifisti italiani ed europei ad appoggiare le richieste legittime del popolo kurdo e chiamiamo tutte le parti in causa ad assumersi le proprie responsabilità.


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L’INGRESSO NELLA UE

di FRANCO VENTURINI


Turchia?
il Problema è l’Europa

Un equivoco di fondo accompagna il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea: invece di puntare i riflettori su quanto Ankara ha fatto e ancora deve fare per meritare il biglietto d’accesso, dovremmo prioritariamente chiederci quanto l’Europa debba fare per rendere possibile l’adesione turca senza autoaffondarsi. Le argomentazioni pro e contro l’allargamento alla Turchia sono note da tempo. Noi riteniamo che quelle favorevoli prevalgano su quelle contrarie: il consolidamento della democrazia turca, l’esempio dato da Ankara al mondo islamico, il potenziale contributo alle politiche dell’Unione pesano sulla bilancia del consenso più dei ritardi che il governo turco deve ancora recuperare e più delle paure che tasso demografico e povertà rurale ispirano ai soci dell’Unione.
Ma se questi e pochi altri (quello religioso non ha mai davvero attecchito) erano gli oggetti del contendere un anno fa, oggi non è più così. Non perché sia di molto cambiata la Turchia, bensì perché è molto cambiata l’Europa.
La vittoria dei «no» ai referendum francese e olandese non ha soltanto ucciso il Trattato costituzionale, ha anche impedito che si creassero condizioni più favorevoli all’allargamento della Ue. L’opinione pubblica ha fatto la sua irruzione sulla scena, ha mostrato di non aver digerito nemmeno l’ampliamento a 25, e oggi è al 52 per cento contro l’ingresso della Turchia (il 35 è favorevole). L’Europa tornata al Trattato di Nizza sembra entrata in catalessi, non riesce a risolvere i suoi problemi interni (il bilancio), non prende iniziative, è incerta sul modello da seguire in economia come nelle istituzioni, ha atteso inutilmente la luce dalle elezioni tedesche e ora attende quasi rassegnata le scelte francesi del 2007.
L’Europa, in una parola, attraversa la crisi più grave della sua esistenza e dietro l’inevitabile scampolo di retorica comunitaria non sa più quali ambizioni vuole ancora inseguire. L’unico elemento chiaro è il bivio che si apre davanti all’Unione: da una parte una rifondazione organizzativa sostenuta da un rilancio integrazionista (e sperabilmente da un ritorno della crescita economica), dall’altra un progressivo declino con la rinuncia ai sogni dei Padri Fondatori.
Se sulle spalle di una Europa siffatta si appoggiasse un peso massimo come la Turchia, l’unico risultato sarebbe di rovesciare quella stessa barca sulla quale Ankara vuole salire. Ma fortunatamente l’Europa e la Turchia hanno tempo. Il negoziato che si aprirà lunedì a Lussemburgo (e deve aprirsi, perché la Ue non può mancare ai suoi impegni) durerà dai 10 ai 15 anni. L’Austria che ancora punta i piedi vuole in realtà garanzie sulla sua protetta Croazia, ma spiega bene quel che potrà accadere ad ogni passo della lunga trattativa con Ankara: basterà un solo stop tra i 25 (per esempio quello di Cipro, in attesa di riconoscimento) per fermare il negoziato, sono previste deroghe e limitazioni su misura, e comunque l’adesione turca dovrà essere approvata in un numero ancora imprecisato di referendum popolari.
La vera questione da porre, dunque, non riguarda la Turchia e la sua auspicata ulteriore evoluzione. Riguarda l’Europa. Come dovrà cambiare l’Unione per sopravvivere da subito a 25 ed essere poi in grado di allargarsi alla Turchia, ai Balcani e forse ad altri? Considerata inizialmente come bestemmia anti-federalista, la risposta che oggi si fa strada è quella che piace a Sarkozy e non dispiace alla signora Merkel: serve una Europa che esalti le «diverse velocità» già esistenti, deve nascere, partendo da alcune conquiste comuni a tutti, una avanguardia nella quale molti vedono Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Polonia e Italia, devono crearsi nella Ue gironi a diverso grado di integrazione sul modello oggi fornito dall’eurogruppo.
Soltanto così l’Europa potrà aspirare ancora a diventare «politica» e nel contempo continuare ad essere la più grande (e pacifica) esportatrice di democrazia al mondo. L’alternativa, triste per tutti, è che la Turchia entri tra 10 o 15 anni nel fantasma di una Europa perduta.