Partecipanti alla delegazione in Kurdistan dal 5 al 10 dicembre 2011
Antonio Olivieri – ass.ne Verso il Kurdistan - Alessandria
Lucia Giusti – ass.ne Verso il Kurdistan - Alessandria
Sebastiano Puleio – ass.ne Verso il Kurdistan - Alessandria
Veronica Rosso – avvocato - Torino
Daniele Forte – ingegnere - Torino
Cristina Patrito – avvocato - Torino
Massimo Bongiovanni - avvocato - Torino
Marco Melano – avvocato - Torino
Danilo Ghia – avvocato - Torino
Daniela Vighetti – insegnante - Torino
Riccardo Bottazzo – giornalista - Venezia
Franco Zavatti – sindacalista - Modena
Aldina Marroni – sindacalista - Modena
Alfonso Augugliaro – medico - Messina
Simonetta Crisci – avvocato - Roma
Rossella Santi – avvocato - Roma
Rossana Giacomelli – ass.ne Terra Terra - Roma
Ornella Delle Fratte – ass.ne Terra Terra - Roma
Debora Maurich – ass.ne Terra Terra - Roma
Caterina Giovanna Mari – studentessa - Cecina
Alberto Mari – ass.ne Forum Palestina - Cecina
David Mattacchioni – lavoratore precario - Modena
Michela Cusano – ass.ne Terra Terra - Roma
Giulia Pietroletti – ass.ne Città delle mamme - Roma
Alessandro Ponzetti – pensionato - Roma
Carla Anelli – pensionata - Roma
Francesca Ventura – ass.ne Città delle mamme - Roma
Marta Zaccaron – produttrice audiovisivi - Roma
Ugolini Edvino – ass.ne Artisti contro la guerra - Trieste
Arturo Salerni - avvocato - Roma
Mario Antonio Angelelli – avvocato - Roma
Reschia Carla – giornalista de “La Stampa” - Torino
Giuliano Osvaldo – pensionato - Roma
Mauro Cavani – insegnante – Reggio Emilia
Karolina Kozik – giornalista - Torino
Canner Lerzan – interprete Istanbul
Tetta Alberto – interprete Istanbul
Viaggio in Kurdistan: tappe
Torino/Roma – Istanbul – Diyarbakir – Van/Hasankeyf – Diyarbakir – Istanbul – Roma/Torino
In Kurdistan.
In Kurdistan.Parole da un viaggio
5 Dicembre 2011
Lungo viaggio in piena notte, poi le luci impossibili dell’aeroporto di Torino. Ci perdiamo nei primi incontri: sorrisi, strette di mano, scambio di nomi e di sguardi. E’ la suggestione e la cura di nuove conoscenze mentre siamo impegnati nell’im- barco delle valigie, piene di indumenti, per amici lontani travolti da un terremoto.
Poco dopo ci troviamo a colmare lo sguardo della dolcezza dell’alba, sopra un mare di nubi che trattengono la notte al suolo.
Un’ora dopo siamo a Roma: nell’aeroporto immenso e caotico. Poi è subito l’in- contro sorridente con volti noti e storie conosciute: parole allegre e attente, come se non ci si fosse mai separati. E la lontananza che scompare, come d’incanto. E un attimo dopo, di nuovo, sulle nuvole verso la meta lontana: Istambul.
Due ore dopo siamo ancora nella confusione dell’aeroporto turco e già incro- ciamo uno dei tanti sensi del nostro viaggiare: Arturo Salerni, uno degli avvocati di cui è ricca la delegazione, e già avvocato di Ocalan in Italia, viene fermato al controllo di polizia. E’ “indesiderato” : ritornerà domani in Italia. Sic!! Ci restano tra le mani la rabbia, lo stupore e l’impotenza. Mettiamo di mezzo il consolato ita- liano, contattiamo radio italiane, avvisiamo giornali. Ma Arturo resterà fermo nel posto di polizia dell’aeroporto e sarà imbarcato domani. Per noi solo l’impotenza di fronte alla prepotenza e alla provocazione.
Il tempo passa lento, e partiamo per Diyarbakir con un’ora e mezza di ritardo. E con un vento di tristezza e rabbia nel cuore e nella mente.
Qualche ora dopo siamo sistemati nel solito hotel ormai famigliare. Subito dopo una cena allegra, tra stanche risate e previsioni di impegni, ci accompagna sino al meritato riposo. Intanto l’aria si è fatta molto fredda e invernale.
Buona notte anche a te Arturo!
6 Dicembre 2011
Alle 9 del mattino siamo pronti e in gran forma. Una breve passeggiata ci porta rapidamente davanti al tribunale di Diyarbakir. Riprende oggi il processo KCK, il processo contro l’Unione delle comunità kurde, dichiarata illegale.
Perché non ci siano dubbi su chi siamo e sulle ragioni che ci portano qui in una stupenda giornata di dicembre, nei pressi del tribunale, srotoliamo un coloratissi- mo striscione in “lingua” : Hepimiz diclè yiz em Hatip Dic Lène. Antonio ci assicu- ra che significa “Siamo tutti Hatip Dic Lène “ ( il più votato deputato Curdo ).
Siamo allegri. Sarà per via della bella giornata o per il fatto che abbiamo l’attenzione di tutti puntata su di noi. Non ci sono, infatti segni di presenza militante:siamo solo noi e poliziotti tutti bardati con tanto di mitra, e poliziotti in borghese.A rendere più inequivocabile la situazione numerosi mezzi blindati.
Tutto questo, naturalmente, ci rende solo più allegri e orgogliosi di essere qui, nel sole. La situazione è tranquilla. I nostri avvocati e gran parte della delegazione entrano nel tribunale. In una decina restiamo fuori ad attirare, con lo striscione sempre ben in vista l’attenzione e la curiosità del serpente di macchine che tran- sita di fronte a noi.
Poi, per ricordare a tutti dove siamo, la polizia ci chiede i documenti e ci fa spo- stare dal lato opposto della strada. Ne approfittiamo per abbarbicarci su un mu- retto che rende ancora più visibile la nostra presenza e lo striscione. Non sono rari, infatti, i segni di approvazione.
La presenza più rilevante è, invece quella della stampa e della TV: interviste, ri-rese, domande, appunti. Chissà, forse è il segno dei nuovi tempi: la forza della comunicazione che supera la condivisione attiva. Oppure, forse, solo il segno di una mobilitazione iniziata molto tempo fa contro questo processo e che ha la- sciato sul terreno la vita di un giovane pochi giorni fa. Ed è una ragione in più per essere qui oggi, noi, stranieri per caso, a ricordare a tutti e a noi stessi che “non si può sempre e tutti tacere”.
Così restiamo fuori con il nostro striscione di mille colori, riscaldati dal sole caldo e dallo scambio di parole, di pensieri, di nostalgie e di desideri.
Verso mezzogiorno escono i nostri avvocati e i compagni della delegazione che hanno assistito all’udienza. Immediatamente l’atmosfera riprende tono e vivaci- tà. E si rincorrono le notizie: il processo si terrà a Diyarbakir ( come chiedeva la difesa ), la difesa ha richiesto la presenza di tutti i detenuti (152) sotto processo, e corre anche la notizia di un cambiamento del capo d’imputazione ( notizia mai confermata ).
Il team degli avvocati – italiani, svedesi, spagnoli – sono presi d’assalto da cameramen, giornalisti e fotografi. E’ la comunicazione Darling!!
Adesso fa caldo, il cielo azzurro e splendente sa d’infinito e il sole regala calore e vita. Ci si scambia parole che sanno di speranza, di forza necessaria per non arrendersi mai.Alle 13,30 il processo ( o ciò che passa per processo ) riprende.
Fuori l’attesa si fa più stanca e pesante. Il nostro striscione continua a lanciare il suo urlo al cielo e i compagni non si arrendono, sino a quando le ombre della notte annullano gli sforzi e l’impegno: tutti tornano in albergo e qualcuno entra in tribunale per aspettare coloro che seguono il processo.
Dentro il “palazzo” una strana atmosfera: sembra una caserma di polizia. Ci sono poliziotti armati ovunque, e sono più numerosi dei “civili”. Strana atmosfera, è difficile definirlo “palazzo di giustizia”.
Intanto si viene a sapere che, in aula, il processo non va avanti: gli imputati parlano la loro lingua e questo determina lo scontro irrisolvibile con la corte. E’ un’affermazione di identità che è più di una sfida: è affermazione di un diritto, di una storia, di un progetto di popolo.
Alle 17,30 la seduta è nuovamente sospesa, il corridoio si anima e si riempie di volti stanchi e nervosi. Le notizie si propagano diffondendo rabbia e sconforto: gli imputati sono accusati sulla base di registrazioni di telefonate, e queste sono tra- dotte in lingua turca non da periti ma da poliziotti. Le prime non sono utilizzabili secondo lo stesso codice penale turco, le seconde dovrebbero essere tradotte da esperti della lingua curda.Insomma la forzatura e la negazione del diritto diventa pratica sancita da un tribu- nale, in spregio del diritto, del buon senso e della stessa civile convivenza.
Una buona notizia, però, rende il calare della notte più sopportabile: la prossima udienza, finalmente, vedrà tutti i detenuti presenti in aula. E’ un urlo contro l’in- giustizia, per potersi riconoscere e ritrovare echi, comprensioni, occhi che dicono della stessa storia, della stessa speranza, della stessa dignità.
Poi arriva la stanchezza, e la serata evolve velocemente per recuperare più ore possibili di sonno e rilassamento.Domani ci attende una giornata intensa, animata e movimentata. Andremo a Van.
E la sveglia è fissata alle quattro del mattino.
7 dicembre 2011
La notte è ancora nera e fredda quando comincia l’attesa dei pulmans per Van. Poi cominciamo ad attraversare il buio e il silenzio. All’orizzonte, ad aprire al futu- ro, la tenue dolcezza dell’alba di un nuovo giorno e il disegno lontano di monta- gne poderose e amiche. Poco prima di mezzogiorno, dopo aver costeggiato l’im- menso lago che bagna Van, ed aver perduto lo sguardo lungo le creste innevate di montagne antiche e possenti per altezza e storia del mondo e dell’umanità, eccoci a Van.
Il primo sguardo sulla città scivola su strutture apparentemente non lesionate. E’ una meraviglia inaspettata che dura poco. Man mano che si procede nelle vie cit- tadine tutto diventa chiaro: la maggior parte dei palazzi sono solo fantasmi vuoti e inabitabili, fortemente lesionati. E ogni piazza, giardino, spazio aperto accoglie tende rifugio per i cittadini.
Poi, l’incontro con il sindaco di Van, e la sua calma che sa di timidezza fonda e inquieta. Ci disegna, nel cuore e nella mente, la realtà drammatica di una città colpita al cuore e nelle cose quotidiane: 650 morti, 250.000 cittadini che hanno la- sciato la città, e i 150.000 rimasti, segnati dal fato sconosciuto, si abbarbicano alla vita con forza imprevista e necessaria. Dicono sia la forza ed il mistero dell’uomo e, in ben altro ambito di senso, la ricchezza senza confini della solidarietà e del riconoscersi parte di un insieme solidale. E così, di fronte ad un prefetto – espres- sione dello stato centrale – che non coinvolge l’amministrazione locale e l’insieme dei cittadini, e che si pone come organizzazione clientelare per la gestione e di- stribuzione degli aiuti di qualunque genere, si colloca la forza della solidarietà che unisce gran parte della popolazione e le amministrazioni comunali amiche.
E, con la stessa solidarietà che non ha bisogno di parole, consegniamo al sindaco i denari raccolti (13.250 euro) e il carico di indumenti che abbiamo trasportato dall’Italia.
Poi segue l’intensità di un momento atteso: entrano le ragazze che vengono aiutate negli studi con le borse di studio finanziate sempre da noi. C’è emozione comprensibile da parte delle ragazze e un calore evidente di tutta la delegazione. Sarà per via della loro giovinezza o della loro inquietudine: sono baci e abbracci, mille foto, e il ritrovare un senso al nostro impegno. Senza bisogno di discorsi e ringraziamenti. E l’augurio che si riaprano presto le scuole ancora colpevolmente chiuse.
Quindi, accompagnati dal vicesindaco, ci aggiriamo nel freddo e nel dolore dignito- so di diversi attendamenti. Ci mostrano con giusto orgoglio il centro di cottura ( sotto le tende ) capace di fornire fino a 35.000 pasti gratuiti al giorno in tutta la città.
E’ una organizzazione possente ed efficiente capace di rompere il gelo ed il destino di questo popolo.
Poi, con un altro spostamento, ci rechiamo in un campo dove incontriamo i sorrisi e i giochi di bambini e bambine che non si fanno piegare dalla sorte e dalle ingiustizie degli adulti. Incontriamo, nello stesso campo, giovani medici sorridenti, operatori sanitari, psicologi, tutti volontari che gestiscono un ambulatorio molto organizzato e che trasmette efficienza, cura e qualità: e ci ricorda dolcemente il valore della solidarietà che si fa impegno e costruzione di futuro. Sempre nello stesso campo: una organizzatissima tenda che fa da lavanderia. Infine entriamo in una tenda ricca: di colori, di sorrisi e di voci di bambini.
E tutto questo dove lo metteremo? In quale angolo del cuore e della mente lo custodiremo?
Una volta preso congedo dai bambini e da quella forza quieta dei curdi di Van e dei loro amici, saliamo sui nostri mezzi per inoltrarci nella notte e nel suo gelo.
E ci rimangono tra le mani quelle parole: a due mesi dall’evento moltissime fami- glie sono ancora senza alloggio / il governo ha inizialmente rifiutato gli aiuti degli altri paesi e ha fermato tali aiuti per lungo tempo / tutta la gestione degli aiuti è centralizzata nella prefettura e nessuno sa quali aiuti e quanti soldi siano arrivati
/ la municipalità ha ricevuto aiuto solo da altri comuni e dalle ONG / il 60% delle abitazioni sono lesionate / 30-40 villaggi sono andati completamente distrutti / l’ospedale è stato evacuato e sostituito da alcune tende con medici del ministero
/ con il comune lavorano poi medici volontari democratici e dei sindacati.
Sì, è proprio il caso di abbandonarsi al gelo e al nero della notte per contenere la rabbia di quanto abbiamo visto e ascoltato. E ritornano, nuovamente, alla mente le parole di una signora indimenticabile: “Non si può sempre e tutti tacere”!
In tarda sera siamo nuovamente a Diyarbakir.
8 dicembre 2011
Alle 8,30 siamo già in cammino e ci portiamo nella vicina municipalità di Sur. Il giovane sindaco della municipalità ci accoglie con un sorriso e con parole che sanno di storia e di vita ( è stato in carcere, suo figlio è in montagna..).
Senza mai perdere il sorriso aperto e caldo ci dice della democrazia che parla di tolleranza, di riconoscimento delle differenze e delle identità. Questo spiega il senso della lotta politica e della stessa lotta armata come reazione alle ingiustizie e violenze dello stato turco. E, senza perdere quel sorriso aperto, sottolinea come ci si avvale della lotta armata solo come necessaria arma di difesa a fronte della vio- lenza dello stato e di misure come il 10% di sbarramento alle elezioni politiche.
Quindi, per dare senso e concretezza a quelle parole e a quel sorriso, sottolinea come i curdi sono passati dalla conquista di 37 amministrazioni comunali nel1999 a più di 90 nelle ultime elezioni. Così come, nel parlamento nazionale, sono passati dai 16 deputati del 1991 ai 21 del 2007 e ai 36 del 2010.
Ci tiene poi a sottolineare che i curdi danno sempre la priorità alla lotta democratica. E che il governo turco, dopo le elezioni, ha reagito con l’aumento della repressione militare e giudiziaria. Così come ha risposto al prolungamento della sospensione della lotta armata da parte dei curdi con una nuova ondata repres- siva e reagisce al successo democratico dei curdi con la repressione e l’incar- cerazione dei suoi dirigenti. Ed è a fronte di questa involuzione antidemocratica che più di 2000 giovani hanno preso la strada della montagna. Poi per evitarci valutazioni imprecise circa la svolta antidemocratica del governo turco ci sotto- linea come lui stesso ha in carico 25 denunce, è stato in carcere e, per la sua presunta adesione al KCK , il governo – tramite magistratura – chiede per lui 35 anni di carcere; se, invece, suo figlio, che è guerrigliero, venisse arrestato, verrà condannato ad un massimo di 6 anni e 8 mesi! Tutto questo dimostra che il go- verno ha più paura dei politici che delle armi.
Mentre dice tutto questo, e ci informa della grave malattia di cui è affetto, non perde neppure per un attimo il suo sorriso. Quasi a ricordare a tutti noi che la lot- ta per la libertà e la giustizia è cosa che ci rende migliori e aperti al futuro senza perdere fiducia e speranza, mai.
Ancora, vuole farci sapere che il partito controlla, a Diyarbakir, 16 municipalità su 17!
Così come vuole farci sapere che loro si battono per la libertà di tutti: di lingua, di religione, delle differenze. “Noi siamo le rose differenti di un giardino di fiori ci dice, con una nota poetica.Così come sostengono con forza la partecipazione e la decisione dei cittadini a livello di quartiere e di città. Ancora: il 40% dei posti nelle amministrazioni e nel partito è garantito alle donne; chi è accusato di violenza sulle donne ( e sulla propria moglie ) deve passare a lei il suo stipendio.
Restiamo attoniti e incantati per le sue parole e quel sorriso che sa di nostalgia di futuro. E’ stato un incontro prezioso, e le parole non rendono sufficientemente la forza che ci ha trasmesso.
Usciamo dalla stanza rafforzati dalle sue parole e discutiamo istintivamente per organizzare e far fare dichiarazioni – al numero più alto possibile di amministra- zioni - per la sospensione del divieto di espatrio al sindaco di Sur per motivi di cura specialistica.
Proprio un bell’inizio di giornata!
Alle 10,30 siamo nella bella sede dell’associazione degli avvocati democratici, ricevuti dal presidente del “Barro” degli avvocati democratici ( quando si ha più di 30 associati ci si costituisce in Barro / loro sono più di 700 a Diyarbakir).
Il presidente è una persona garbata e calma, e ci da una raffica di informazioni e sottolinea i paradossi della giustizia contro gli stessi avvocati: 6 avvocati sono stati arrestati per il processo KCK / la carcerazione preventiva può arrivare a 10 anni !! / dagli anni 90 l’esercito ha bruciato e sfollato più di 4000 villaggi e paesi sulle montagne / il governo colpisce duramente l’iniziativa e la lotta democratica per spingere i curdi alla lotta armata / per capire meglio: chi ha rubato o ha violen- tato una donna può parlare in curdo al processo ; nel caso di dirigenti o militanti arrestati per motivi politici, invece, si resta in carcere.
I nostri avvocati ne approfittano per chiedere chiarimenti e precisazioni circostanziate.
Cosa dire? L’incontro è molto istruttivo e denso, e non lascia spazio a dubbi o incertezze.
Alle 12,50 entriamo nella sede dell’ Associazione delle madri per la pace, dei martiri e dei detenuti di questo scontro infinito. La sede è umile e piccola: ci af- folliamo sulle sedie e al suolo. Loro sono schierate con i loro vestiti tradizionali e lievi veli bianchi a coprire con eleganza i capelli e i volti. Hanno sguardi molto seri e antichi. Incutono rispetto, quel rispetto profondo che si deve a persone segnate nel segreto più intimo: il dolore per la perdita di un figlio. Tra donne ci si scambia abbracci teneri e sinceri. E c’è un’atmosfera delicata di rispetto e ascolto.
La più giovane parla per tutte. Ha un tono deciso e uno sguardo che parla come e meglio delle parole. Ci tiene a precisare che loro sono per una soluzione pacifica del conflitto, ma si rendono conto della difficoltà di questa soluzione. E, per farci capire, sottolinea con asprezza come recentemente si siano trovate le prove di uccisione, con armi chimiche, di 5 guerriglieri. E come questa denuncia di utilizzo di armi chimiche non trovi alcuna risposta e iniziativa da parte degli organismi internazionali.
L’atmosfera è molto intensa, gli sguardi fondi e i volti sono vere maschere che sanno di dolore e di volontà senza cedimenti.
La loro organizzazione è diffusa in molti centri. A Diyarbakir hanno circa 30 mili- tanti e sono presenti in molte altre città. Hanno tentato, e tentano, di avere con- tatti con le madri di soldati turchi uccisi, ma la polizia interviene puntualmente e in modo intimidatorio. Quando partecipano a manifestazioni vengono trattate come qualunque altro militante curdo: vengono minacciate e aggredite anche quando sono madri anziane. E sono state ripetutamente picchiate, in molte città della Turchia, durante le manifestazioni.
Con le loro parole ma sopratutto con i loro volti, i loro sguardi, i loro modi ci metto- no di fronte alla durezza e alla complessità non di una teoria ma di una situazione quotidiana, personale e collettiva: reale e vissuta.
I saluti di commiato sono densi di tenerezza e di rispetto.
Instancabili, ma lievemente piegati, proseguiamo il nostro giro di incontri nella sede grande e funzionale di Tuhad-Fed ( associazione delle famiglie dei detenuti politici).
Dopo una lunga discussione e chiarimento circa il nostro sostegno a molte famiglie, la responsabile ci parla delle loro attività e di uno sciopero della fame che proseguirà ad oltranza per ottenere quanto rivendicano. Intanto sono stati ogget- to di un attacco repressivo che ha colpito due loro avvocati e due dirigenti; e dopo questi attacchi hanno dovuto aumentare le loro prudenze e attenzioni.
Alcuni dati e elementi di conoscenza: attualmente, nelle carceri turche, ci sono12.000 detenuti per motivi politici e, di questi, 11.000 sono curdi. In particolare la associazione concentra il suo interesse sui detenuti minorenni che subiscono violenze e abusi sia dagli altri detenuti che dalle guardie carcerarie. Un altro pro- blema è rappresentato dal fatto che molti detenuti sono reclusi in carceri molto lontane dalle loro residenze. E c’è un grave sovraffollamento ( non ci consola il fatto che non siamo gli unici) nelle carceri e gravi problemi sanitari. Non sono pochi i detenuti torturati e picchiati e a cui non vengono prestate cure puntuali e necessarie. Lo stesso abbandono vale per i guerriglieri feriti. Inutile dire che si riscontrano gravi problemi psicologici e che, negli ultimi 10 anni, sono deceduti
944 detenuti e si registra un alto numero di suicidi.
Il giorno si va spegnendo quando lasciamo la sede di Tuhad-Fed e ci precipitiamo per non mancare l’ultimo incontro.
IHD. Associazione per i diritti umani. Piegati dalla raffica di incontri approdiamo in una bella e comoda sala. Un luogo elegante e raffinato, e sopratutto caldo.Il gruppo dirigente di IHD è costituto da 20 persone di cui tre in carcere ed altri
sotto inchiesta.
E il quadro della situazione ha le ultime precisazioni che ci confermano altre pa-ole e altri pensieri. Perchè nessuno possa avere dubbi e perplessità:
- la questione curda non viene considerata come un problema politico ma pura e semplice questione di ordine pubblico;
- un gravissimo problema è rappresentato dalla violenza ( tortura, pestaggi, cariche durante le manifestazioni ) che viene esercitata ad ogni livello;
- vittime della violenza sono anche i minori e i bambini. E, naturalmente, anche le donne;
- non esiste una completa e sufficiente libertà di organizzazione, di pensie- ro, di stampa,..
- l’IHD non è mai stata autorizzata ad entrare nelle carceri;
- la libertà di stampa non è scontata e completa per i giornalisti di opposi- zione e, sopratutto, curdi.
- Oggi, l’AHP di Erdogan ha molti più poteri di prima, vista la riduzione dei
tradizionali poteri dell’esercito e della magistratura;
- il dominio e il controllo sul sistema giudiziario è praticamente totale.
Se cercavamo conferme al senso del nostro impegno e della nostra presenza in questa terra ora possiamo rilassarci. Adesso i nostri incontri a Diyarbakir sono finiti. Non ci resta che abbandonarci in attesa della partenza. E’ il tempo di mille pensieri che si intrecciano senza ordine e nostalgie. Quasi a significare che non è stato “tutto il tempo che va via”.
Poi, con un ultimo sforzo, ci ritroviamo tra le nuvole che cancellano il mondo e voliamo a raggiungere Istambul e la sua immensità. Inafferrabile.
9 dicembre 2011
Per la prima volta il risveglio non è all’alba. Ci incontriamo tra i sorrisi e ci dedi- chiamo ad una lauta colazione. Il primo appuntamento è previsto in tarda mat- tinata e quindi possiamo godere dell’immensità e della bellezza della città sul Bosforo. Si passeggia tra la possanza di S. Sofia e la bellezza senza parole della Moschea Blu. Poi torniamo al nostro impegno.
Incontriamo gli ultimi due avvocati, ancora a piede libero, del collegio di difesa di Ocalan ( proprio ieri ne sono stati arrestati due! ).
Sono tranquilli e pacatamente sorridenti mentre disegnano il quadro attuale della situazione e della condizione del leader in carcere, e in isolamento, da 12 anni:
- Ocalan è in una grave condizione di isolamento che peggiora a seconda dell’andamento politico;
- Dal 27 luglio 2011 nessun avvocato ha più potuto incontrare Ocalan;
- Neppure i parenti e i famigliari, a partire dal 12 ottobre, hanno potuto incon-
trarlo ( precedentemente, avevano la possibilità di visitarlo ogni 15 giorni);
- Ocalan, inoltre non ha più diritto alla comunicazione con chicchessia: av- vocati, parenti, amici, ec..;
- Non ha neppure alcun tipo di rapporto con gli altri 5 detenuti del carcere di
- Dal 1999 al 2009 Ocalan è rimasto solo nel carcere di , dal 2009 sono arrivati altri 5 detenuti ma non si incontrano mai con Ocalan.
Ci tengono a sottolineare come Ocalan sia un ostaggio sotto ricatto, e che im- pedire ogni incontro con gli avvocati difensori significhi negare il diritto di difesa. Proprio contro la violazione di questo diritto è stata presentata una denuncia alla Comunità Europea.
Ma c’è di meglio e di più provocatorio: il 22 ottobre 2011 il Presidente Erdogan ha dichiarato che gli avvocati della difesa di Ocalan non sono altro che un “ufficio” del PKK. Per questo hanno presentato una petizione a Strasburgo di denuncia della situazione che non ha ricevuto nessuna risposta. Sic!! L’Europa maestra di democrazia!!
Ancora: parallelamente al peggioramento della condizione carceraria di Ocalan si registra l’aumento della repressione e della lotta al PKK.
Ci tengono a sottolineare come, da tempo, Ocalan sostenga la necessità di un pon-
te di dialogo tra turchi e curdi, e sia impegnato a risolvere pacificamente il conflitto.
Mentre ritengono grave che le democrazie europee, gli intellettuali, i giuristi non prendano posizione su queste “crudeltà” e ingiustizie. E come questo atteggia- mento rappresenti un oggettivo sostegno per il regime turco.
A questo punto Simonetta, instancabile avvocato e militante, e membro delegato dell’Associazione Avvocati Europei Democratici , nonché militante nell’Associa- zione Giuristi Democratici in Italia, ha consegnato una lettera agli avvocati di Ocalan, a firma dell’Associazione Europea degli avvocati Democratici (AED) e dell’Associazione Europea degli Avvocati per la democrazia e la difesa dei diritti Umani nel mondo (EDL), inviata il 25 novembre al premier turco Erdogan, al Pre- sidente della Repubblica Gul e a tutti i membri del Governo. La lettera esprime la protesta e la condanna per gli arresti del 22 novembre, chiede l’immediata scarcerazione degli avvocati privati della libertà al fine di ristabilire la legalità permettendo loro di esercitare il dovere/diritto di difesa senza ostacoli e minacce, come previsto da Convenzioni internazionali firmate anche dalla Turchia.
I due avvocati acquisiscono con evidente entusiasmo la lettera che Simonetta consegna loro. E’ sempre motivo di fiducia e speranza scoprire che non si è soli nel silenzio e nell’abbandono. Ed un motivo di soddisfazione anche la nostra pre- senza numerosa e solidale.
Sottolineano ancora come, da anni, il regime abbia avuto molti incontri con Oca- lan. L’obiettivo era, evidentemente, quello di “far arrendere” Ocalan, e il fatto che questo non sia avvenuto ha rilanciato la durezza del regime, anche contro gli avvocati. Infatti, tutti gli avvocati che hanno avuto contatti con Ocalan sono stati arrestati. E tutti hanno preteso di parlare in curdo per la loro difesa. Tutti gli avvo- cati sono accusati di fare da tramite tra Ocalan e i guerriglieri.
Resta, per noi e per loro, la domanda circa l’improvviso cambio di rotta del gover- no dopo essere giunti ad un passo dall’accordo.
L’indicibile, si sa, è qualcosa che mina la possibilità di futuro e crea muri che chiu- dono l’orizzonte. Ma la fiducia e la solidarietà danno coraggio, e forza, e aprono al futuro e alla possibilità.
Poi siamo precipitati nella confusione e nella frenesia delle strade di Istambul. La dispersione è inevitabile e, forse, anche la stanchezza ormai ci segna. In pochi arriviamo all’ultimo appuntamento: il Centro di Accoglienza per immigrati. Aper- to da pochi mesi, offre assistenza sanitaria, sociale e psicologica. E’ un piccolo appartamento con arredo ridotto all’osso, ma ricco di utenti e domande di soste- gno. Accoglie da 400 a 500 immigrati provenienti da mezzo mondo. E’ un lavoro immane che mette a dura prova la possibilità di rispondere a tutte le richieste: una piccola isola di accoglienza e cura nel caos della città immensa e straniera. Ma i sorrisi e la volontà dei militanti aprono spazi e opportunità che toccano tutti noi: non possiamo ignorare questo impegno e la domanda che passa in queste stanze. Attualmente il nostro impegno si concretizza nel pagamento dei medici- nali che il centro distribuisce, ma tutti saremo coinvolti e impegnati nella ricerca di materiali e strumenti sanitari per rafforzare l’iniziativa. Non lo dimenticheremo.
Subito dopo ci disperdiamo nella folla del centro di Istambul. E’ un piacere cam- minare nel cuore di questa città che porta i segni di una storia possente. Ma non riusciamo a liberarci delle parole e delle immagini che abbiamo attraversato: sarà
per quella nostalgia che abbiamo di un’altra storia possibile.
Così alle 19,00 ci troviamo a partecipare ad una manifestazione rumorosa e com- patta che scorre tra la folla che si concentra nel cuore della città attorno a Piazza Taxim. Con slogans lanciati senza sosta per richiedere la possibilità di ritrovare il luogo della sepoltura di un giovane ucciso dalla polizia anni fa. Siamo contenti di esserci.
Quando ci sciogliamo arriva un’altra manifestazione, con tanto di bandiere ros- se marx-leniste o maoiste che percorre in senso inverso la strada che abbiamo disceso.
Che dire!? Il pensiero non può fare a meno di perdersi nel sogno irrealizzabile di una sinistra che sappia riconoscersi.
La giornata si conclude a cena, con una parte del gruppo, in un locale curdo in cui ci lasciamo andare a discorsi serali, quelli che sanno di vita, di ricordi, di curiosità, di risate.
Un’ultima, lunga passeggiata, con attraversamento del magnifico ponte sul Bo- sforo, ci riporta in albergo. Adesso la nostra avventura è veramente finita. Non restano che i bagagli da sistemare e i volti e le parole da conservare nelle pieghe dell’anima, quelle che sanno di vita. Quella vera, vera e condivisa con tutti coloro che non si arrendono.
Sarà perché hanno toccato la sottile materia di cui sono fatti i sogni.
ALLEGATI
6 dicembre: udienza a Diyarbakir per il processo KCK
Alla 28^ udienza del processo che si tiene al Tribunale Penale di Diarbakyr sono
presenti solamente sei imputati.
Alla 19^ udienza la Corte ha deciso di non far partecipare i 151 imputati, ma
solamente sei per volta.
L’odierna udienza inizia con la comunicazione della Corte di voler spostare il processo in altra città per motivi di sicurezza. Gli avvoati si sono opposti sottoli- neando: che gli imputati sono da 32 mesi detenuti, che in 28 udienze non sono stati sentiti, che alla 19^ udienza, senza giusta motivazione, è stata disposta la comparizione solamente di sei imputati per volta. Tutto ciò è una grave violazione dei diritti umani.
La motivazione addotta di non voler far stancare gli imputati è risibile, loro han- no diritto di essere presenti in aula, hanno diritto di parlare la loro lingua, per 27 udienze la Corte ripete le stesse motivazioni come un clichè.
La modalita stessa in cui si svolge il processo è già una punizione per gli impu-tati, la Corte ha denunciato 100 avvocati ed il Baro di Diarbakyr.
L’avvocato presidente del Baro di Diyarbakir esordisce: “Siamo qui per svolgere la nostra difesa o solamente per formalità? Così si viola non solo la legge ma anche il ruolo degli avvocati, ruolo riconosciuto dall’ONU, dobbiamo quì difendere anche i principi del processo, ogni imputato ha diritto di scegliere il proprio avvocato, voi avete violato anche questo principio denunciando 150 avvocati ed imponendo ali imputati avvocati da voi scelti. Gli avvocati difendono i diritti uma- ni, vogliamo fare il processo liberamente, abbiamo diritto di incontrare i nostri assistiti, questo processo è anche contro i principi forensi e deve svolgersi rego- larmente.” La difesa si oppone allo spostamento del processo in altra sede insi- stendo sulla mancanza dei motivi di sicurezza, la resposnsabilità della lunghezza del processo non è da addebitarsi agli avvocati e agli imputati: essi non temono di andare in altro tribunale ma la cosa e’ palesemente illogica.
Per molte udienze gli avvocati per protestare contro la decisione di far comparire solamente 6 imputati alla volta non sono andati in udienza, ma oggi c’erano tutti ed hanno presentato delle difese scritte.
Il tribunale ha deciso di passare alla fase istruttoria, di leggere le intercettazioni telefoniche in aula, ma gli avvocati pretendono che , come previsto dal codice, prima si debbano interrogare gli imputati, ma questi ultimi parlano in kurdo. La corte riunita in camera di consiglio ha deciso di mantenere il processo a Diar- bakyr, il processo va avanti per ore senza che nulla cambi: gli imputati vogliono e tentano di parlare in kurdo, il Giudice li mette a tacere, gli avvocati insistono nel pretendere la presenza in aula di tutti gli imputati e che siano prima sentiti, e poi passare alle prove. Dopo l’interruzione per il pranzo, il processo riprende.I giudici decidono che alla fine dell’udienza diranno se gli imputati potranno essere pre- senti in aula, tutti contemporaneamente.E’, infatti, per decisione della Corte che gli imputati non vengono tradotti dal carcere per partecipare al processo.
Viene letta una deposizione fatta da un imputato dinanzi al Pubblico Ministero dopo l’arresto; è stata scritta in turco e in curdo, ma i giudici leggono solo la tradu- zione in turco, a causa della questione che è centrale per il processo. Gli imputati chiedono insistentemente di poter difendersi nella loro lingua madre. Ma i giudici non lo consento ed hanno deciso di andare avanti con il processo, omettendo di interrogare gli imputati. Questo è stato un altro punto di scontro con i difensori che hanno chiesto ancora una volta di esaudire la richiesta degli imputati.
L’imputato di cui stanno leggendo la deposizione, lamenta, anche, che sono state estratte alcune frasi dalle intercettazioni e sono usate dall’accusa, senza conside- rarne il contesto. Inoltre le traduzioni non sono fatte da un interprete ufficiale, ben- sì dalla Polizia, che ha interpretato le telefonate, in lingua Kurda,arbitrariamente, senza trascrivere la versione in lingua originale.Pertanto viene rifiutata l’accusa e gli avvocati insistono per una traduzione con interprete.
I giudici continuano a leggere le deposizioni e le traduzioni delle intercettazioni, senza dar conto delle richieste dei difensori e degli imputati.Uno degli avvocati , rivolgendosi ai giudici, ricorda loro che il governo turco, a distanza di oltre 70 anni ha dovuto chiedere scusa per il genocidio di un popolo ( gli Armeni) e che il loro atteggiamento rischia di dover far chiedere ancora scusa , forse tra 50 anni, per quanto accade oggi, anche in queste aule.
Alle proteste di un altro imputato, che vuole parlare in Curdo, i giudici conferma- no la loro volontà di proseguire solo in lingua turca, né valgono le proteste quan- do gli imputati riferiscono che il testo in turco non corrisponde a quello in curdo.
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Diyarbakir, Emin Aktar, interviene a più riprese in nome di tutto il collegio di avvocati per ribadire che l’azione dei giudici è illegittima, contraria a quanto disposto dal Codice di proce- dura penale e che, sicuramente, il loro comportamento e quanto decideranno al di fuori della legalità, un giorno sarà annullato da altri giudici come loro.
Il problema principale, inoltre, è quello che, mentre i giudici conducono il proces- so ignorando le richieste della difesa, gli imputati sono in carcere da 32 udienze a causa di accuse non provate e che oggi vengono ancora una volta assunte illegittimamente, come le deposizioni che continuano ad essere lette nonostante gli imputati ne rifiutino la paternità.
Il presidente della Corte si cimenta anche in battute spiritose, nonostante la drammaticità delle circostanze: in aula sono presenti i familiari dei detenuti e le delegazioni di Paesi europei, quali due deputati Baschi, due deputati svedesi e numerosi avvocati, dall’Italia e dall’Olanda.
Il giudice fa anche riferimento alla numerosa delegazione italiana, dicendo che anche lui non conosce l’italiano eppure li ha fatti essere presenti, riferendosi ai curdi che negano di potersi difendere in lingua turca (sic!).
L’udienza si avvia al termine verso le 18, quando gli avvocati chiedono di deci- dere sull’introduzione, negli atti del processo, delle deposizioni in lingua curda e, invece, i giudici, con un’Ordinanza, decidono di non accettare la richiesta, riser- vandosi di decidere sulla traduzione delle stesse.
I giudici continuano ad ignorare le richieste degli imputati e continuano con la
lettura di intercettazioni tradotte illegittimamente, come quelle tra un imputato e il proprio fratello o la moglie, non tralasciando anche “messaggini” telefonici che un imputato non riconosce come propri.
Viene, poi, letta una petizione degli imputati detenuti e non portati in udienza, che chiedono di presenziare al processo e un’altra di detenuti trasferiti a Bingol che chiedono di essere riportati a Diyarbakir.
Gli avvocati insistono nella richiesta di rendere liberi i detenuti, essendo passati 24 mesi dall’inizio del processo, senza che si sia andati avanti e dichiarano che considerano manovre dilatorie quelle dei giudici che non decidono sulle richieste e sulle istanze degli imputati.
Ma oggi la giornata si conclude con due vittorie, poiché alla decisione di non spo- stare il processo in un’altra città,si aggiunge quella della fine del processo, quando i giudici decidono che alla prossima udienza del 12 dicembre concederanno a tutti gli imputati di essere presenti.Una buona, anche se faticosa giornata, che soddi- sfa le richieste degli avvocati, degli imputati e anche delle delegazioni presenti!
7 dicembre – visita alla città kurda di Van, dopo il terremoto
Mercoledì 7 dicembre, una delegazione italiana composta da una trentina di persone, ha visitato l’antica città kurda di Van, in Turchia, colpita da un terribile terremoto il 23 ottobre e il 9 novembre scorsi. E non è finita perché le scosse continuano.
Avevamo con noi del vestiario e delle coperte, assai preziosi per combattere il rigi- do inverno anatomico, e del denaro che avevamo raccolto in Italia (13.250 euro).
Abbiamo consegnato di persona il tutto al Sindaco della città, eletto nelle file del partito kurdo BDP, Avv. Bakir Kaya, che ci ha informato della situazione e delle difficilissime condizioni di vita degli abitanti di Van.
Ebbene, il terremoto, che ha fatto 650 vittime e più di 6.000 feriti, ha distrutto molte abitazioni, ha reso inagibili il 60% delle case, 30 - 40 villaggi sono comple- tamente distrutti; la popolazione è costretta alla fuga o a vivere in tenda. Ma si tratta perlopiù di tende estive e inadatte al rigido clima invernale.
Di 400.000 abitanti, circa 250.000, ovvero quelli che avevano maggiori disponibi- lità economiche, sono riusciti a lasciare la città, gli altri 150.000, i più poveri, sono accampati nelle varie tendopoli presenti in città.
Anche ad Ergis, un’altra città sul lago, il terremoto ha fatto seri danni e la città è quasi distrutta.
E’ inutile dire che le attività economiche, le piccole industrie, l’artigianato, sono praticamente distrutti.
Dal canto suo, il governo partecipa ad una società di costruzioni che si chiama
“Toki”: ricercano terreni liberi per erigere palazzi per poi rivenderli ai terremotati!
Le scuole sono chiuse, anche perché almeno 65 maestri sono morti nel terre- moto di ottobre, e non si sa quando potranno riaprire, nonostante gli annunci dei ministri turchi, puntualmente disattesi.
L’unico ospedale della città è inagibile.
Il Sindaco ci ha riferito della situazione paradossale creatasi con la Prefettura di Van, che, secondo la legge, gestisce l’emergenza terremoto e la ripartizione degli aiuti che da tutto il mondo sono in un primo tempo arrivati (dapprima rifiutati, poi lasciati marcire per molti giorni alle frontiere).
Ebbene, nonostante le richieste dell’amministrazione comunale di Van, non c’è nessuna comunicazione o informazione della Prefettura sui piani di distribuzione degli aiuti, sul programma di ricostruzione, sulla situazione scolastica e sanitaria.Insomma, come se non esistesse.
Eppure, la municipalità di Van, grazie all’aiuto delle altre municipalità kurde e ai pochi aiuti internazionali, che direttamente gestisce, è in grado di assicurare 35.000 pasti caldi gratuiti, al giorno e distribuirli in una quindicina di tendopoli dove ha attrezzato delle lavanderie collettive e dei piccoli ospedali da campo.
Noi stessi abbiamo visitato le grandi cucine ed una tenda votata ad infermeria, dove due medici e due infermieri, tutti volontari facenti parte del sindacato Ses, aderente alla confederazione Kesk, lavorano in difficili condizioni ambientali.
Siamo andati via con una sensazione di grande tristezza, amplificata dal fatto che i pochi aiuti finora arrivati, rischiano di scemare, finito l’effetto del clamore mass- mediatico creatosi nei giorni successivi al terremoto, come anche teme il sindaco Bakir Kaya.
Bisogna rilanciare da subito la campagna pro-terremotati di Van: servono medicine, medici, personale infermieristico, vestiario, coperte, soprattutto denaro, e servono presto.