Viaggio in Kurdistan.
Da Van verso sud, attraverso il Paese che non c’è
“Hanno bruciato le nostre case
gli animali, gli alberi di frutta.
Hanno bruciato anche gli
uomini.
Ma non sono riusciti a bruciare
le nostre canzoni.”
Alì Asker, cantante kurdo,
ventisei anni di esilio
Siamo al sesto anno di questa esperienza di viaggio solidale e di conoscenza, in Kurdistan, il paradiso della mezzaluna fertile, l’antico giardino dell’Eden, terra dove diecimila anni fa ebbe inizio l’agricoltura, dove Zarathustra, il profeta dei kurdi, 600 anni prima di Cristo, predicava l’amore per la natura, per le greggi e la carità verso gli uomini, una terra oggi deturpata dalle rovine di oltre 4.000 villaggi, da una presenza militare invadente, dall’ecocidio e dall’esodo dei profughi di guerra, dalle grandi dighe in costruzione sull’alto corso dei fiumi che furono culla dell’umanità, il Tigri e l’Eufrate.
Partenza sabato 25 luglio, prima tappa Istanbul, poi con volo interno si arriva a Diyarbakir, l’antica Amed, capitale virtuale del Kurdistan turco. Del milione e mezzo di abitanti, lo stato turco ne censisce neanche la metà, gli altri sono profughi che popolano un’infinita periferia di dignitosa povertà. Le 22 moschee, la chiesetta armena sopravvissuta al genocidio, la chiesa caldea, l’antico bazar, e, soprattutto i cinque chilometri delle possenti mura romane che circondano la città, con le ottantadue torri sull’alto corso del Tigri, le strade sempre piene di gente , di suoni e di colori, ritornano nei sogni e nei canti dei kurdi della diaspora.
Nella città di Diyarbakir abbiamo avviato, da anni, progetti di sostegno a distanza delle famiglie dei detenuti politici, aiuti per l’associazione degli handicappati e un progetto pilota per i bambini che lavorano in strada nella sottomunicipalità di Baglar; qui, abbiamo partecipato ai processi, di cui sono state vittime, i sindaci di Sur, Abdullah Demirbas, e di Diyarbakir, Osman Baydemir, accusati di voler stampare una brochure multilingue per pubblicizzare i servizi della municipalità…
26 luglio 2009 – incontro con il vice sindaco di Sur - Diyarbakir, Mehmet Alì Altun Kairac
A Sur, sottomunicipalità di Diyarbakir, dove convivono varie minoranze (assiriani, armeni, caldei, turchi e kurdi), abbiamo incontrato il vice-sindaco, nonché assessore alla cultura della municipalità, Mehmet Alì Altun Kairac; assente il sindaco, Abdullah Demirbas, impegnato in una importante riunione.
Il rappresentante della municipalità ci ha parlato delle recenti elezioni, vinte con il 64.3% di voti, per il partito filokurdo DTP (Partito della società democratica), nonostante i vari condizionamenti sul voto da parte del governo (regalie, intervento dei clan, delle tribù…; nella sola Diyarbakir, il governo ha speso 120 trilioni di lire turche per “comprare” i voti dei kurdi, senza successo!); si è soffermato a lungo sul pesante clima repressivo che si respira in città e in tutta la regione.
Il sindaco, Demirbas, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per aver “osato” fare dichiarazioni sulla guerra “sporca” che insanguina l’area da tre decenni. Ora si attende il verdetto della Corte di Cassazione: se venisse condannato, sarebbe automaticamente destituito e, per lui, si aprirebbero le porte del carcere!
Per quanto riguarda l’altro processo ancora in corso, ovvero quello relativo alla pubblicazione di brochure multilingue, tra cui il kurdo, sta capitando un fatto strano, che dimostra come le leggi vengano utilizzate, in modo discrezionale, solo contro la minoranza kurda; infatti, il Prefetto della città sta facendo la stessa cosa in varie lingue, ma lui non è stato denunciato! Le leggi vengono applicate a senso unico; ciò che è proibito per i kurdi, non lo è per altri!
Arresti e torture continuano; vietato dare nomi kurdi ai propri figli, vietato ripristinare i nomi kurdi di villaggi e città; chiudono i canali televisivi kurdi, ma loro stessi violano le leggi e la Costituzione, istituendo un canale nazionale “addomesticato” in lingua kurda, TRT6 (c’è una legge che dice che, fuori dalla lingua turca, tutte le altre lingue sono proibite!).
Adesso il governo cerca di creare i “suoi” kurdi, come ha già fatto con gli aleviti: li chiama “kurdi bianchi”!
Il governo ha in mente tre scenari:
fare in modo che la road map che proporrà Ocalan, non venga realizzata;
avanzare una proposta minimale per la soluzione della questione kurda;
continuare la politica “antiterrore” in corso.
Al contrario, il DTP ha in mente un progetto di forte decentramento, che va sotto il nome di “autonomia democratica”.
Tra i problemi sicuramente prioritari per la municipalità di Sur, vi è quello relativo all’afflusso dei profughi, contadini che sono stati costretti a lasciare i loro villaggi. Vi è una popolazione molto povera. Ma chi soffre veramente di più sono i bambini e le donne.
La municipalità sta lavorando affinché le bambine frequentino regolarmente i corsi scolastici, affinché i ragazzi accedano ai corsi gratuiti per gli esami universitari, affinché siano ripristinate le migliaia di “carte verdi” cancellate (la “carta verde” dà diritto all’accesso gratuito ai medicinali) e in aiuto alle famiglie in difficoltà.
26 luglio 2009 – incontro con la municipalità di Baglar – Diyarbakir
Abbiamo parlato del progetto, finanziato dall’Auser Piemonte e dall’Associazione Verso il Kurdistan – onlus, relativo ai bambini che lavorano in strada, progetto per il quale è stata versata, in quest’occasione, l’ultima rata di 6 mila euro (il costo totale del progetto era di 40 mila euro).
I rappresentanti della municipalità ci dicono che il progetto pilota sta andando bene: era stato previsto per 30 bambini, ma adesso la struttura ne ospita 60.
Oltre a questo, aiutano le famiglie dei bambini con vestiti, anche denaro (ma solo per le più povere!), pagano i libri scolastici, aiutano le donne a trovare un’occupazione attraverso la cooperativa di recente costituzione, “Berfin” (Bucaneve).
Tra non molto, i bambini pubblicheranno un giornalino che – ci promettono – verrà inviato anche a noi in Italia.
26 luglio 2009 – visita alla baraccopoli kurda, Fiskaya
All’estrema periferia est di Diyarbakir, scendendo verso il Tigri, con vista sulle mura e i torrioni che abbracciano la città, c’è la baraccopoli kurda di Fiskaya: 5 mila profughi, per la maggior parte famiglie fuggite negli anni 90 del conflitto dai loro villaggi distrutti dall’esercito, case e baracche messe su in fretta e furia, alcune pericolosamente abbarbicate a precipizi, sovente incomplete, un saliscendi di gradini scavati direttamente nella roccia, stradine inesistenti, stalle per gli animali tra le casupole e capre che brucano qualche raro ciuffo d’erba in mezzo a montagne d’immondizia, le donne che si affacciano alle finestre, dietro le grate, per guardare, nugoli di bambini scalzi che ti circondano chiedendoti l’elemosina o solo una foto, una povertà nera e profonda, nessun servizio, forse unicamente un piccolo ambulatorio che però non abbiamo visto.
Un anziano ci ha raccontato che vive lì ormai da 36 anni, lì sono cresciuti i suoi figli e i suoi nipoti; solo chi ha denaro può andarsene – ci dice - alla ricerca di posti migliori per vivere.
Da Diyarbakir, si sale verso Hasankeyf, per vedere, forse per l’ultima volta, i resti di dodici millenni di storia, prima che li sommergano le acque della diga di Ilisu, complice una cordata di banche ed imprese europee di cui fa parte anche una controllata austriaca dell’italiana Unicredit, proprio per impedire che sia l’ultima volta.
Hasankeyf, capitale degli antichi regni d’Anatolia, vero e proprio museo all’aperto, che ospita, oltre a chiese e moschee, anche la tomba del sultano Suleymano, diretto discendente di Maometto, una città che ha conosciuto ben nove civiltà diverse, ognuna delle quali ha lasciato testimonianze ed un nome: Hasankayef in turco, Kiphas in greco, Cepha in latino, Hisna Kayfa in arabo, Heskif in siriaco aramaico, Hasankeyf in kurdo.
Luogo d’incontro delle tre grandi religioni monoteistiche – la cristiano ortodossa, quella cattolica siriana e quella islamista – le sue torri hanno visto passare arabi, mongoli, persiani, turcomanni, ottomani.
Da Hasankeyf si scende verso Batman, dove arrivano i terminal petroliferi che, insieme all’acqua, formano la rete autostradale dell’energia anatolica; poi si viaggia verso Siirt, centro di lavorazione dei tessuti di lana mohair e patria dei tradizionali pistacchi, dove incontreremo le famiglie dei detenuti e dei martiri dell’associazione Sthay der e, dove, insieme al sindacato insegnanti, Egitim Sen, abbiamo contribuito ad avviare un progetto di doposcuola per i bambini profughi.
Da Batman verso Siirt, lungo una strada che corre a lato di una fila infinita di pali della luce, in cima ai quali nidificano le cicogne, una per ogni palo: animali belli e raffinati, il corpo sottile ricoperto da un piumaggio bianco e nero, stavano immobili, ritte sulle loro lunghe gambe, sopra ai nidi, ad osservarci…
27 luglio 2009 – incontro con il sindaco di Siirt, Selim Sadak
L’incontro avviene in municipio, alla presenza del sindaco e di rappresentanti dei coltivatori di pistacchi.
“Questa città è tra le più povere- ci dice - Il municipio non ha un servizio sanitario, non ha neppure un’ambulanza. Non ci sono neanche i pompieri, o meglio, ci sono, ma possono intervenire solo fino al 4° piano! Non ci sono parchi per i bambini, non c’è un centro culturale comunale.
Le campagne sono molto fertili, il 50% della rendita della città viene dall’agricoltura, si producono i migliori pistacchi di tutta la Turchia (li chiamano “oro verde”), però non ci sono né strutture, né mercati per la commercializzazione del prodotto…
Abbiamo bisogno di fare un lavoro serio per far conoscere al mondo i pistacchi di Siirt.
Oggi qui ci sono 5 mila produttori di pistacchi, di cui 500 sono riuniti in cooperativa.
Hanno degli obiettivi minimi:
una fabbrica/deposito per lavorare i pistacchi, il cui costo preventivato si aggira intorno ai 50 mila euro (progetto per il quale stanno ricercando i finanziamenti);
la volontà di far conoscere la produzione di pistacchi di Siirt anche all’estero, partecipando alle fiere che vengono indette, soprattutto in Europa.”
27 luglio 2009 – incontro con la famiglia di Ali Cekin nel quartiere Evren di Siirt
Il marito è morto in carcere di tumore, la moglie – Hediye Cekin – ha 77 anni, proviene dal villaggio di Heraris (nome kurdo; in turco, fa Osbasoghu) che è stato bruciato dai militari nel corso degli anni ’90 durante i periodi più duri del conflitto.
Ricorda che quel giorno, i militari, dopo aver bruciato le case, hanno fatto scavare una fossa nel centro del villaggio e lì, sul posto, hanno barbaramente ucciso 4 persone; un quinto è stato gettato da un elicottero.
In seguito sono arrivati nella città di Siirt, nel quartiere dove abitano tuttora.
Hediye Cekin ci racconta che, alcuni anni fa, è arrivata dalle montagne una ragazza – una guerrigliera - a chiedere ospitalità. Tre giorni dopo, sicuramente a seguito di una “soffiata”, è arrivata la polizia ed ha tratto tutti quanti in arresto.
Come già detto, il marito è morto di tumore, praticamente senza cure, in carcere; la moglie ha scontato anch’essa tre anni e mezzo di prigione ed è stata rilasciata meno di un mese fa; anche il nipote, che viveva in casa con loro, ha subito il carcere: l’accusa, per tutti quanti, è di aver aiutato un’organizzazione terrorista.
Una cognata che è presente in casa, Meryem Demir - abitava il villaggio di Gere (nome kurdo; in turco, fa Gevrimli), - ci racconta di un episodio che ha coinvolto, a suo tempo, il padre, insieme ad altri: un pulmino con 12 persone a bordo era esploso nel 1994 in un attentato attribuito al PKK, che invece aveva smentito il proprio coinvolgimento.
A distanza di anni, si è scoperto che le vittime erano state convocate in caserma, chiedendo loro di “collaborare”: al loro netto rifiuto, erano state uccise a bastonate, in commissariato, ed i loro corpi erano stati caricati su un pulmino per organizzare la tragica messinscena.
Nelle cause intentate dalle famiglie contro lo Stato per avere giustizia, c’è stata, per ultima, la sentenza della Corte di Giustizia di Strasburgo che riconosce la versione dei fatti denunciata dalle famiglie delle vittime e condanna lo Stato a pagare 20 mila euro per ogni persona assassinata.
Adesso il loro villaggio non esiste più, sono stati sfollati dall’esercito, perché hanno rifiutato di diventare “guardiani di villaggio”.
La popolazione del quartiere Evren di Siirt è di 15 mila abitanti e il 90% delle persone si portano dietro storie simili. Quasi ogni famiglia del quartiere ha un parente in carcere per motivi politici.
27 luglio 2009 – incontro con il presidente di Tuhad Der di Siirt, Arafat Aksu
L’incontro con Arafat Aksu è incentrato sulla particolare situazione del carcere di Siirt.
Il carcere di Siirt – ci dice – è un carcere di tipo E, con celle predisposte per ospitare da 6 ad 8 - 10 detenuti, ma, in realtà, le persone rinchiuse sono molte di più.
La sveglia per tutti arriva alle 6.00 del mattino; aprono la cella alle 7.00 ed i detenuti di quella singola cella possono accedere ad un piccolo cortiletto interno, chiuso, che non permette contatti con i detenuti di altre celle, fino alle 20.00 di sera.
L’acqua in prigione arriva per mezz’ora al mattino; un’altra mezz’ora al pomeriggio e mezz’ora alla sera.
C’è un solo medico per tutto il carcere, ovvero per assistere 690 detenuti, di cui 234 sono i “politici”; in carcere, ci sono pure 6 – 7 ragazzini con meno di 14 anni accusati di reati di “terrorismo” per aver lanciato sassi contro la polizia durante le manifestazioni.
Non esiste un’età minima per non essere puniti dal punto di vista penale: anche a 6 anni si può andare in carcere!
La maggioranza dei guardiani è composta da turchi.
Ai parlamentari turchi è vietata la visita delle carceri e dei detenuti.
Tra Diyarbakir, Batman , Siirt e Mardin risultano arrestate oltre 250 persone a seguito delle operazioni di polizia post elettorali.
Lasciando Siirt, si sale verso la città di Van, a 1.700 metri d’altezza, adagiata sulle rive del lago omonimo, dalle isole ricche di storia, come quella di Akdamar, che emerge dalle acque con il suo gioiello incastonato ad est: una chiesetta armena, in arenaria rossa, straordinariamente decorata e oggi restaurata.
Van è dominata da un castello grandioso ed austero, ricco di scritte cuneiformi. La città fa risalire le sue origini leggendarie al gigante Gilgamesh e al diluvio universale; la storia, invece, parla del regno di Urartu, quasi tremila anni addietro.
E’ in questa città che la nostra delegazione di osservatori della società civile ha vissuto la straordinaria vittoria elettorale del partito filokurdo DTP, dopo le tremende giornate del Newroz 2008, costato due morti e centinaia di arresti e feriti.
29 luglio 2009 – incontro con la nuova sindaca di Bostanici, Nehazat Ergunes
Incontriamo la neoeletta sindaca di Bostanici, Nehazat Ergunes, che ci offre una colazione all’aperto, in un bel prato.
Bostanici è una cittadina sulle sponde del lago di Van che conta ufficialmente 8.500 abitanti; in realtà, vi risiedono 20 mila persone; la popolazione è più che raddoppiata a seguito della violenta repressione che ha scacciato migliaia di persone dai loro villaggi.
Nehazat Ergunes ha lavorato per 20 anni come impiegata presso il municipio di Van, e, successivamente, per ulteriori 7 anni, come dirigente del DTP.
Quando le chiediamo il suo stato d’animo difronte alle nuove responsabilità di sindaco, risponde che la fa stare male la discrasia tra le tante esigenze dei suoi concittadini e gli esigui mezzi a sua disposizione per soddisfarle.
Le risorse economiche sono scarse perché scarsi i fondi messi a disposizione dal governo centrale, mentre la povertà della popolazione riduce la possibilità di attingere a risorse tramite tassazione locale.
I trasferimenti del governo sono soggetti a oscillazioni imprevedibili a seconda dell’andamento economico generale, e, in genere, bastano a malapena a pagare i 51 funzionari comunali.
In questa situazione, la cooperazione internazionale riveste un ruolo molto significativo.
Siamo qui anche per fare il punto sul progetto fognario finanziato da ATO5, ATO6 e dal Comune di Alessandria.
Il progetto, presentato, a suo tempo, dalla municipalità di Bostanici ammontava a 210 mila euro.
Il finanziamento finora concesso ammonta a 60 mila euro, di cui 40 mila già trasmessi (ma l’Istituto per la cooperazione allo sviluppo di Alessandria ha ipotizzato di concedere un ulteriore finanziamento, se reperirà i fondi necessari).
La sindaca Nehazat Ergunes ci prospetta un altro problema: la necessità di costruire un altro deposito per la raccolta dell’acqua, in quanto nel serbatoio attualmente in funzione è stata accertata la presenza di arsenico, infiltrato dal sottosuolo.
L’Ufficio Sanitario della città ha diffidato l’amministrazione comunale dal distribuire alla cittadinanza l’acqua raccolta in quel serbatoio; l’amministrazione comunale ha fatto ricorso, ma i tribunali hanno sancito che la municipalità dovrà far fronte, con proprie spese, senza alcun aiuto economico da parte del governo centrale, all’obbligo di garantire alla popolazione l’accesso all’acqua non inquinata.
Da qui il loro appello alla cooperazione internazionale per costruire un altro serbatoio che attinga ad un’altra falda acquifera.
Chiediamo a Nehazat Ergunes se anche a Bostanici esiste la piaga dei suicidi di donne che, in realtà, mascherano i “delitti d’onore”.
La sindaca risponde affermativamente, ma spiega anche come, a suo parere, quelli che sono considerati “delitti d’onore”, affondano le loro radici in situazioni di povertà e di disoccupazione e nella disperazione da esse ingenerata.
Il problema riguarda, in particolare, la popolazione inurbata dalle campagne, a seguito della distruzione dei villaggi da parte dell’esercito. Le donne dei villaggi avevano un ruolo sociale e lavorativo, essendo impegnate in campagna accanto agli uomini. In città, le donne vivono isolate, incapaci di costruire relazioni esterne alle famiglie e impossibilitate a ritagliarsi un proprio ruolo lavorativo e sociale al di fuori della casa.
Sugli uomini si riversa, giocoforza, tutto il peso del mantenimento della famiglia.
In un contesto di disoccupazione generalizzata, esplode la violenza maschile sulle donne e sui figli, quando il capofamiglia vive tutte le frustrazioni del sentirsi inadeguato ed impotente rispetto al ruolo assegnato a cui non riesce a far fronte.
Conclude con una frase di apprezzamento e di simpatia nei nostri confronti e del nostro Paese: “E’ molto significativa la vostra visita in Kurdistan. Per noi kurdi, l’Italia è molto importante: è il primo Paese dove si è rifugiato Abdullah Ocalan”.
In occasione della visita alla famiglia dell’ex sindaca di Bostanici, Gulcihan Simsek, il giornale filokurdo Gunluk ha pubblicato un articolo- intervista alla delegazione italiana, che riportiamo.
L’associazione MediAzione onlus (è l’altro nome dell’associazione Verso il Kurdistan che utilizziamo negli atti ufficiali in Turchia e in Kurdistan), che, arrivata a Van, dove ha tenuto vari incontri in città con associazioni e sindaci, ieri ha visitato la famiglia di Gulcihan Simsek, l’ex sindaca di Bostanici, arrestata nel quadro delle operazioni contro il Dtp.
La delegazione italiana, formata da sette persone, che, partita da Diyarbakir, è andata a Siirt e Hasankeyf e poi andrà a Sirnak, Hakkari, Nusaybin, Gaziantep e ad Adana, ha visitato la famiglia di Gulcihan Simsek, ex sindaca di Bostanici, che è stata arrestata e internata in un carcere di tipo E a Diyarbakir, nel quadro delle operazioni contro il Dtp, che hanno avuto inizio il 14 aprile.
Antonio Olivieri, che è il dirigente dell’associazione MediAzione, ha detto: “Noi ascoltiamo i problemi dei kurdi nei luoghi dove andiamo”.
Ha continuato dicendo che loro incontrano i sindaci del Dtp, i quali li informano dei problemi esistenti nell’area e che sono a fianco delle municipalità del Dtp; incontrano anche associazioni della società civile, con le quali costruiscono progetti di cooperazione.
Olivieri ha spiegato che hanno contribuito a fare il progetto dell’acquedotto di Bostanici quando Gulcihan era sindaca, ed hanno detto che loro tengono informata l’opinione pubblica italiana dei problemi dei kurdi nella regione.
Per la soluzione della questione kurda, Olivieri ha fatto queste brevi valutazioni: “In Turchia, c’è al potere una casta militare. Se il governo muove qualche passo in direzione della pace, da questa viene impedita. Davanti ad una situazione di questo genere, il governo opta per la repressione dei membri del Dtp e di tutte le altre forze democratiche e per la pace”.
Al termine, Olivieri ha detto che anche il Parlamento europeo critica i metodi di oppressione contro i kurdi.
Il padre di Gulcihan, Faid Simsek, ha detto che questo tipo di oppressione è comunque destinato a finire.
29 luglio 2009 – incontro con il nuovo sindaco di Van, Bekir Kaya
Bekir Kaya è stato un avvocato del Collegio di difesa di Ocalan: è stato, perché dal 2005, il governo turco ha vietato a Kaya di raggiungere Imrali, l’isola – carcere dov’è rinchiuso il presidente del Pkk. Infatti, nel 2005, il governo ha emanato una legge che dice che gli avvocati che hanno a carico un procedimento similare a quello dei loro clienti, devono rinunciare al mandato di assistenza
degli stessi. Ora, in più, vige una legge che proibisce ai sindaci di esercitare l’attività di avvocatura per cinque anni.
Ci dice che negli ultimi 15 anni la popolazione di Van è cresciuta di quattro volte, senza infrastrutture, con servizi sociali insufficienti; la disoccupazione è molto alta; i problemi sanitari attanagliano i più poveri; c’è una qualità molto bassa dell’istruzione scolastica (la municipalità di Van occupa uno degli ultimi posti in classifica, per l’esattezza il 76° posto, su 81); c’è infine, il problema legato al risanamento del lago.
Dopo le elezioni amministrative del 29 marzo, i militari hanno smantellato parecchi check point; questo fa presupporre che ci possono essere buone speranze per il futuro, anche se continuano a rimanere in carcere molti dirigenti del DTP, in carcerazione preventiva. La durata di questa carcerazione dipende dal numero dei capi d’imputazione; hanno tempo un anno per preparare gli atti d’accusa, con un limite massimo di due anni, che però potrebbe essere prorogato a tre!
30 luglio 2009 – contributo di 350 euro consegnato a Sevket per la liberazione di una carcerata
Prima della partenza per Hakkari, tra i membri della delegazione, è stato raccolto un contributo di 350 euro per pagare la cauzione liberatoria per una ragazza del DTP di Van, Elef, condannata ad un anno di carcere; questa somma, aggiunta a quella di 400 Ytl raccolte dalle donne del partito, permette di raggiungere la cifra di 1.100 Ytl, cifra necessaria a pagare la sua cauzione per farla uscire dal carcere.
Il denaro è stato consegnato al nostro autista, Sevket.
Da Van ad Hakkari sono oltre duecento chilometri, attraverso una regione dominata da verdi pascoli montani e straordinarie vallate, ma irta di posti di blocco militari.
Qui sono schierati 250 mila militari turchi, pronti ad entrare in Iraq con il pretesto di fermare la guerriglia del PKK, in realtà per bloccare sul nascere l’esperienza di un futuro stato kurdo e allungare le mani sul petrolio di Kirkuk e Mosul.
Hakkari, l’antica Merivan, oggi è una città di circa 70 mila abitanti, molti profughi di guerra, poca agricoltura e pastorizia, ancor meno commercio, eccezion fatta per i celebri tappeti Kilim che qui hanno una tradizione secolare.
Ad Hakkari, città di frontiera, la repressione è durissima: qui, i giovani entrano ed escono dal carcere, spesso senza accuse specifiche; il 23 aprile di quest’anno, nel corso di una manifestazione di protesta, vi sono stati otto feriti gravi, tra cui un ragazzino di 14 anni picchiato a morte dalla polizia e tuttora in coma.
La municipalità di Hakkari ci ha proposto un interessante progetto per la realizzazione di un mercato coperto, per dare lavoro e riparo ai numerosi profughi che sopravvivono trainando i loro carretti da ambulanti con misere cose, esposti alle intemperie per parecchi mesi all’anno.
30 luglio 2009 – incontro con il sindaco della città di Hakkari, Dr. Fadil Bedirhanoglu
Il dottor Fadil Bedihanoglu è docente di teologia all’Università di Urfa, prestato ad Hakkari per svolgere l’attività di sindaco, dopo la sua elezione.
Ci accoglie, esordendo con queste parole: “ Noi siamo tutti fratelli. Non importa che alcuni di noi siano francesi, altri italiani o kurdi, siamo tutti fratelli, siamo tutti membri della stessa famiglia umana.
Non è possibile che venga a mancare a ciascuno di noi, la sensibilità e la solidarietà verso gli altri, verso il prossimo.
Il vostro comportamento è molto umano e dimostra come l’unione tra le genti sia una cosa di straordinario valore.
Con il vostro impegno e il vostro interesse, date una buona lezione all’umanità.
Tutti devono essere sensibili alle sofferenze e alle gioie degli altri”.
Continua dicendo: “In molti Paesi, l’umanità non conosce ancora i propri valori.
Nel xxi° secolo, ci sono ancora Paesi e nazioni che negano i diritti dell’uomo, e, con interventi autoritari e militareschi, negano il futuro ai loro popoli. Uno di questi popoli è quello kurdo.
Mi spiego con un esempio preso a prestito dalla mia esperienza di vita: quando sono andato per la prima volta a scuola, mi sono trovato in classe con 50 compagni, non uno che sapesse una parola di turco, e un insegnante che, al contrario, non sapeva pronunciare una sola parola di kurdo!
Noi pensiamo che tutte le genti del mondo siano fratelli e sorelle; per questo, devono vivere come fratelli e sorelle.
Nessuno puo’ determinare, prima della sua nascita, la propria destinazione.
Hakkari è nelle montagne e le montagne sono in Hakkari.
Hakkari è una città che ha rapporti molto stretti con le montagne.
Per queste caratteristiche naturali ha molti problemi. Un antico proverbio kurdo dice che, qui in montagna, per avanzare di cinque metri, dobbiamo percorrere dieci metri di strada!
Noi non abbiamo grandi possibilità.
Abbiamo un’unica fortuna, quella del sostegno del nostro popolo.
Siamo stati eletti con l’80% dei voti; lavoriamo insieme al nostro popolo, che partecipa, dal basso, al lavoro della municipalità.
Abbiamo possibilità limitate; non possiamo rispondere a tutte le domande dei nostri concittadini!
La Turchia vuole entrare nell’Unione Europea, ma Hakkari non ha infrastrutture, né fognature, ha molti problemi ambientali, un numero di profughi dai villaggi delle montagne molto alto (20 anni fa, la popolazione della città era di 20 mila abitanti; oggi, dopo l’arrivo dei profughi, tocca i 70 mila; prima la città aveva solo tre quartieri, oggi, i quartieri sono ben 15!).
Tutto questo ha creato enormi problemi alla municipalità: le fogne e l’acquedotto erano stati costruiti per una popolazione di 20 mila abitanti, non rispondono più alle esigenze e ai bisogni attuali; i contadini si sono portati dietro la cultura del villaggio ed hanno trasformato la città in un grande villaggio.
Tutto ciò in totale assenza di aiuti dallo Stato.”
Al termine, il sindaco conclude con un commiato che riassume bene lo stato dei “nuovi” sindaci del DTP: “Noi siamo obbligati a farcela; ce la faremo!”
Prima di partire, la delegazione consegna la prima rata di 10 mila euro, raccolti dall’associazione “Verso il Kurdistan” – per il progetto del mercato coperto, a favore dei profughi della città (la somma complessiva del costo dell’intero progetto ammonta a 60 mila euro).
30 luglio 2009 – incontro con IHD (associazione dei diritti umani) di Hakkari
Incontriamo due dirigenti dell’associazione.
Ci dicono che l’area intorno ad Hakkari è
molto fragile: da trent’anni, in questa zona, ci sono scontri armati molto duri tra esercito e guerriglia.
“Il nostro compito – continuano i dirigenti dell’Ihd – è quello di aiutare la gente di questa città a conoscere e a far rispettare i propri diritti; li assistiamo ogni giorno, nelle case, nelle scuole, nei tribunali, ovunque si presenti la necessità.
Quando Erdogan, il presidente del consiglio, è arrivato qui per il suo tour elettorale, ha incontrato grandi proteste. E’ sceso in elicottero all’interno di una caserma, ha tagliato un nastro per l’inaugurazione di un ospedale ed è scappato via!
Negli scontri che sono avvenuti con la polizia, ci sono stati molti feriti, di cui uno particolarmente grave.
Prima delle elezioni, il partito di Erdogan, l’Akp, ha distribuito pacchi dono per ingraziarsi la popolazione: generi alimentari, vestiario, elettrodomestici… ma le politiche del governo restano antipopolari, sono fatte di repressione, violenza, accompagnate da piccole regalie… e la gente ha capito tutto questo.
Comunque, la vittoria elettorale kurda del 29 marzo ha iniziato a dare i suoi frutti: il governo ora parla di dare soluzione alla questione kurda. E questo accende un poco di speranza in tutti noi.
Durante gli anni ’90, dopo la partenza delle delegazioni straniere, scattava la repressione nei confronti di chi restava; oggi, non è più così.
Anzi, arrivano le prime confessioni e denunce.
A Semdinli, il 18 luglio 2009, un militare di leva che aveva prestato servizio in città nel 1994, ha confessato, che, all’interno della sua caserma, sono stati seppelliti nottetempo, 12 contadini, in una fossa comune.
L’Ihd di Hakkari ha contattato i contadini della zona che hanno confermato il fatto, ha successivamente ottenuto l’autorizzazione ad intervenire e, proprio nel luogo indicato dal militare, ha rinvenuto ossa umane e brandelli di vestiti…
C’è anche un’altra confessione: un ex guardiano di villaggio ha dichiarato di aver seppellito in una fossa comune, ben 98 corpi di guerriglieri uccisi…”
Purtroppo, in questi giorni sono riprese le
esecuzioni extragiudiziarie.
Il 25 luglio di quest’anno, sono stati uccisi, due membri del Dtp di Baythussebap: assassinati in pieno giorno, sono stati trovati seminascosti in un fosso, i corpi seppelliti sotto pietre e sassi.
Da Hakkari, si sale, attraverso una stupenda Arcadia montana, verso Sirnak, ai piedi del monte Cudi, dove la nostra associazione ha sostenuto, insieme alla municipalità, il progetto di un centro sanitario per le donne e i bambini, in una realtà caratterizzata da una situazione sanitaria disastrosa, unita a povertà diffusa e profonda, dominata da una presenza militare pervasiva e soffocante.
31 luglio 2009 – percorrendo la strada che collega Hakkari a Sirnak, 190 chilometri.
Si percorre un’unica strada che corre a lato del fiume Zap, tra immense montagne e profonde gole, villaggi arroccati dove manca tutto e greggi sparsi sui pendii, una strada disseminata di posti di blocco e di casematte dell’esercito.
Almeno una decina di check point dell’esercito, una strada che si può percorrere in tre ore, ma che, in realtà, richiede un tempo non inferiore a 7 – 8 ore.
Ad ogni posto di blocco, un controllo minuzioso dei documenti e dei bagagli.
Di sera, stremati, arriviamo, finalmente a Sirnak.
31 luglio 2009 – incontro con il nuovo sindaco di Sirnak, Ramazan Uysal
“Gli uomini d’affari – dice il sindaco, accogliendoci nella sala consiliare del Comune – non vogliono fare investimenti qui da noi perché la situazione non è sicura.
Giovani, studenti, laureati non trovano lavoro e devono migrare.
Le esecuzioni extragiudiziarie continuano: come voi saprete, il 25 luglio hanno assassinato due dirigenti del Dtp a Baytussebap.
Le foreste che avete visto carbonizzate, durante il vostro viaggio, sono state bruciate dall’esercito.
Durante il festival della cultura kurda di Baytussebap, che si è tenuto il 24, 25 e 26 luglio, i militari, a scopo intimidatorio, hanno pure sparato per aria, sopra le teste delle persone che lì erano radunate.
Questa è la situazione che ci troviamo ad affrontare in questa zona.
Noi stiamo continuando il progetto che abbiamo realizzato con voi; adesso, abbiamo acquistato anche un’ambulanza ed un carro funebre, mezzi di cui la municipalità era sprovvista.
Mediamente, si rivolge al centro un numero di 25 – 30 persone.
Vogliamo anche sviluppare l’ambulatorio analisi, gli ultrasuoni e l’elettrocardiogramma.
Ci serve acquistare queste macchine. In Turchia, il costo si aggirerebbe intorno ai 17 mila euro.
Chiediamo a voi se potete aiutarci a sviluppare questo progetto”.
Come delegazione, abbiamo detto che ce ne saremmo fatti carico nei limiti del possibile; nel contempo, abbiamo comunicato che la campagna Arance di Natale ha prodotto un risultato positivo di 6 mila e seicento euro che saranno inviati a Sirnak e che serviranno all’acquisto di medicinali gratuiti per le famiglie sprovviste della carta verde per l’assistenza sanitaria.
Proseguendo, si arriva a Cizre, dove confluiscono i confini artificiali di Turchia, Siria ed Iraq, zona cara alla resistenza kurda, che vent’anni fa nacque proprio qui, nella regione montagnosa del Botan. A Cizre si può vedere la tomba di Noè e il mausoleo degli sfortunati amanti Mem u Zin, una sorta di Romeo e Giulietta che i kurdi raccontano in almeno tre versioni diverse.
Cizre è un luogo importante per la tradizione letteraria del popolo kurdo.
31 luglio 2009 – incontro con il Centro culturale “Mem u Zin”
Incontriamo un dirigente del Centro, Mehmet Edip Boz, in quanto la presidentessa, Eylem Ustun, è andata, con altri, a Dogubeyazit per il Festival della cultura kurda.
Rispondendo alle nostre domande, ci dice che la situazione non è cambiata, è sempre grave. Oggi, è stato arrestato un consigliere comunale di Cizre, Ihsan Kalkan, ad Adana; non si conoscono ancora le motivazioni.
Oltre alle due esecuzioni extragiudiziarie di Baytussebap, c’ è stata, il 27 luglio, un’altra esecuzione a Igdir: sconosciuti, hanno fatto scendere dal pulmino e freddato sul posto il guerrigliere dell’Hpg, Ali Cex Muhammed.
Chiediamo se la statua di Oharan Dogan è ancora ricoperta da un telo e sorvegliata da un militare 24 ore su 24. Ci dice che, adesso, non è più così.
Mentre la tomba dei due amanti, Mem u Zin, è stata completamente ristrutturata, con il contributo dell’Unione europea.
Il Centro – continua – si occupa di danza, teatro, musica e dell’arte degli antichi cantastorie (denbey).
31 luglio 2009 – incontro con il sindaco di Cizre, Aydin Budak
A Cizre, il Dtp ha ottenuto l’80% dei voti e il sindaco, Aydin Budak, è al secondo mandato (si tratta di uno dei pochi sindaci riconfermati, in quanto gli altri sono quasi tutti cambiati). In città si erano presentati candidati di tutti i partiti che hanno preso pochissimi consensi; solo l’Akp, il partito di governo, ha ottenuto il 17% dei voti.
“ La vostra sensibilità e amicizia – esordisce – è molto preziosa per noi, viene prima dei progetti.
Ogni progetto o passo che fate – piccolo o grande che sia, poco importa – è molto importante per i kurdi di questa zona.
Volevo che voi vi occupaste di due villaggi, Eludere e Uzun Gecit: hanno molti problemi essenziali (a Eludere non arriva l’acqua nelle case; a Uzun Gecit manca proprio tutto!).
Vi ricordate quando siamo andati a visitare l’ospedale e ci hanno cacciato, voi ed io?
Ebbene, un risultato c’è stato. Subito dopo la vostra partenza, gli ambulatori pubblici sono passati da 2 a 6 ed i medici, da 5 che erano, sono diventati 20!
Inoltre, e, per la prima volta, hanno effettuato pulizie di fondo, e terminato un ospedale con 150 posti letto.
Vuol dire che gli impegni di questo tipo producono frutti ed hanno ricadute a cascata.”
Al termine del breve colloquio, abbiamo incontrato la sindaca di Eludere, Sukran Sinkar, che ci ha illustrato il progetto di trasporto dell’acqua dalla sorgente fino alle case; ci siamo impegnati a ricercare i soldi (costa complessivamente 43 mila euro) per realizzarlo.
1 agosto 2009 – articolo sulla delegazione italiana apparso sul giornale filokurdo, Gunluk
“Questa terra è sotto occupazione (titolo)
La delegazione italiana che si occupa di solidarietà e diritti umani, formata da 7 persone, nel quadro delle visite organizzate in questa zona, ha incontrato il sindaco di Sirnak, Ramazan Uysal.
All’incontro il sindaco ha informato la delegazione italiana sullo stato dei diritti umani e sui problemi sanitari in zona.
Ramazan ha parlato degli interventi attuati come sindaco, ha parlato dell’attività del centro sanitario (realizzato dall’associazione Verso il Kurdistan insieme alla municipalità) ed ha detto che è loro intenzione allargare l’attività di detto centro per dare più servizi e prestazioni alla popolazione di Sirnak.
E la portavoce della delegazione italiana, Lucia Giusti, ha detto che, durante il viaggio da Hakkari a Sirnak, i soldati hanno fermato parecchie volte il pulmino e li hanno fatti attendere, a lungo, sotto il sole.
Giusti ha concluso che questa è una terra sotto occupazione!
Dal 2009, l’associazione Verso il Kurdistan ha aiutato con l’acquisto, fino a 5 mila euro di medicinali, la popolazione di Sirnak; per l’anno prossimo, il contributo a tal fine, realizzato con la campagna Arance di Natale, sarà pari a 6.600 euro,
1 agosto 2009 – visita alla tomba dell’ex deputato Ohran Dogan e alla statua eretta nel Parco della Pace, difronte al fiume Tigri
Abbiamo visitato la tomba restaurata di Ohran Dogan, l’ex deputato kurdo del disciolto partito Dep che ha scontato dieci anni di carcere insieme a Leyla Zana ed è morto di malasanità.
Uno scritto di Ohran Dogan, scolpito sulla tomba, dice:
“Non è facile raccontare della storia dei leoni e delle loro prede, le gazzelle, ma è una storia molto simile a quella degli autori delle esecuzioni extragiudiziarie e delle loro vittime.
In natura, la crudeltà dei leoni contro le fragili gazzelle è fin troppo chiara, evidente, cosi’ come gli uomini che commettono crimini efferati, non sono mai sconosciuti; loro sono tra di noi e vivono dentro di noi.
Qualche volta seguono le loro prede, come ombre, e, sulle loro tracce, compiono i loro assassinii; sono della stessa razza delle loro vittime, come i leoni assaltano e sbranano altri simili, le loro povere prede.
Ma coloro che provano rimorso e vergogna nel perseguire gli altri, sono diventati, al tempo stesso, testimoni e accusati… un passo ancora, ed anch’essi diventano vittime delle esecuzioni di quegli uomini che si muovono nell’ombre.
Con amicizia, Ohran Dogan”
Questi brevi versi stavano, invece, scolpiti ai piedi della statua di Ohran Dogan, eretta sulle rive del Tigri:
”Se non è possibile un giardino con un solo fiore, se non è possibile un’orchestra con un solo strumento, com’è possibile una Turchia ad una sola dimensione?”
Dopo Cizre, seguendo la strada che corre a lato del confine siriano, si giunge a Nusaybin, l’antica Nisibis romana, divisa, dalla città gemella Qamishli, in territorio siriano, da rotoli di filo spinato e postazioni militari. A Nusaybin, incontreremo l’associazione delle donne di Agenda 21, con le quali abbiamo realizzato il progetto della “lokanda” all’interno del centro culturale “Mitanni”.
1 agosto 2009 – incontro con le donne di Agenda 21
“Questa caffetteria è il simbolo della nostra lotta, della lotta delle donne kurde – ci dicono le giovani ragazze della cooperativa che gestisce il locale presso il centro culturale Mitanni – il servizio viene fatto parlando in kurdo: una sorta di rivoluzione sociale della donna!”
Il progetto della “locanda” di Nusaybin è stato finanziato dall’associazione Verso il Kurdistan, con il contributo di singoli e di altre associazioni, per un totale di 17 mila euro.
Attualmente, occupa otto ragazze a part-time che ricevono uno stipendio di 350 ytl al mese; sono state assunte tre nuove ragazze, al posto di altrettante dimissionarie, tutte provenienti da famiglie povere e con genitori martiri o incarcerati.
Agenda 21 ha pure affittato un pulmino per accompagnare a casa le ragazze, di sera, dopo la chiusura del locale.
Recentemente, nel locale, è stata installata una macchina per gelati, i cui proventi andranno, per il 50% a loro, e per l’altro 50% alla ditta che noleggia l’attrezzatura.
1 agosto 2009 – incontro con la sindaca di Nusaybin, Ayse Gokkan
Incontriamo, presso il Centro Culturale Mithanni, la sindaca di Nusaybin, Ayse Gokkan, eletta nella tornata elettorale amministrativa di marzo. Ci raggiunge al nostro tavolo, dopo aver parlato a lungo con il suo predecessore alla guida della cittadina che conta ufficialmente circa 88 mila abitanti, 100 mila effettivi, in seguito agli inurbamenti dovuti alla guerra e alla repressione. Ayse è stata eletta a marzo con l’83% delle preferenze (25 mila voti sui 30 mila espressi), in un contesto in cui si sono recati alle urne il 70% degli aventi diritto.
E’ una delle 14 donne che il Dtp (che ha conquistato in tutto 100 municipalità) ha fatto eleggere a marzo, alla massima carica amministrativa: basti pensare che sono solo 19 le donne sindaco in Turchia, mentre su 2 mila sindaci dell’Akp, solo 5 sono donne!
Prima di essere eletta, lavorava per il dipartimento femminile del Dtp. Spiega che il colpo di stato dell’80 aveva fatto tabula rasa di ogni forma di organizzazione autonoma delle donne. Poi, dopo il 2000, le donne sono riuscite a ricostituire una presenza femminile autonoma all’interno del Dtp, in ogni città.
Confessa di non aver mai vissuto a Nusaybin prima della sua elezione a sindaca, ma di esserci passata spesso, in qualità di dirigente femminile del partito.
Quando le chiediamo delle priorità che intende affrontare nella sua azione amministrativa, risponde che la priorità è la questione femminile.
Esiste, innanzitutto, un problema educativo. La maggior parte delle donne non va a scuola e non conosce il turco, il che impedisce loro l’accesso ai servizi e l’autonomia personale (ad esempio, non possono interloquire con un medico, se non con una mediazione maschile).
Le chiediamo se il suo intento di riconoscere priorità ai problemi delle donne sia condiviso dalla componente maschile del partito o se incontri resistenze. Lei risponde che questa linea fa parte della strategia del Dtp. Ancora non soddisfatti, la incalziamo: ma gli uomini del Dtp mandano a scuola le loro bambine? Ayse Gokkan non nega il persistere di un atteggiamento di chiusura da parte di molti uomini, anche militanti del Dtp, ma dice che queste resistenze sono vinte, almeno in parte, dalla pressione convergente delle donne e del partito stesso.
Ancora, dice che è in fase di organizzazione una sorta di consultorio diretto in particolare alle donne che si sono rifugiate a Nusaybin, scappando dai loro villaggi distrutti. In realtà, la struttura in fase di organizzazione ruota intorno ad esigenze un po’ diverse da quelle che trovano risposta nei nostri consultori: sostegno psicologico alle donne che hanno subito perdite, lutti e traumi nella guerra, creazione di cooperative che diano lavoro alle donne stesse…
Poi, c’è la grande questione della violenza contro le donne, violenza ad opera degli apparati dello Stato, ma anche violenza domestica. Recente, è il caso di una attivista per i diritti umani minacciata di stupro da uomini delle forze di sicurezza. Le otto deputate kurde hanno denunciato pubblicamente l’episodio e da qui, da questa denuncia, ha preso avvio una campagna contro la violenza alle donne che si è dispiegata anche a livello locale.
Quanto alla violenza domestica, esiste ora un po’ più di sensibilità, ma la società è ancora fortemente patriarcale.
Certo, la guerra non favorisce attenzione ai problemi delle donne, per cui il quadro che ne deriva è a macchia di leopardo. Nelle zone in cui è ancora forte il rombo della guerra, in cui ancora sono frequenti gli scontri armati, anche l’attenzione ai problemi delle donne è più debole, perché finisce inevitabilmente in secondo piano rispetto alle esigenze imposte dalla repressione. Dove la guerra appare più lontana, i problemi delle donne riescono ad imporsi nella loro drammaticità.
I “delitti d’onore” sono ancora una macchia nella società kurda, anche se Ayse lamenta come questa realtà sia sfruttata ad arte dalla macchina propagandistica turca, che ha tutto l’interesse a dipingere la società kurda come arcaica ed arretrata, dimenticando come lo stesso fenomeno sia diffuso anche nella Turchia occidentale: all’ovest, non si chiamano “delitti d’onore”, ma “delitti d’amore”! E questo fenomeno, radicato nella mentalità corrente, ha un preciso addentellato nella legislazione turca che prevede uno sconto di pena per i delitti d’onore. Anche su questo terreno va registrato un preciso impegno da parte delle parlamentari kurde che si battono perché sia cancellata la riduzione della pena.
La violenza domestica trova un suo alleato anche tra le forze dell’ordine, che tendono a rimandare a casa, dal marito, le donne che si rivolgono ai commissariati per denunciare le violenze coniugali. La denuncia delle donne deve essere infatti suffragata – fino a poco tempo fa, secondo la legislazione vigente – da testimonianze di altri familiari. Ayse dice di aver fatto una ricerca sull’argomento e di aver trovato una Convenzione internazionale, firmata anche dalla Turchia, che esclude la liceità di una norma siffatta. Ayse si è quindi rivolta all’Onu, denunciando l’incongruità della legislazione nazionale rispetto alle convenzioni internazionali e la Turchia è stata costretta ad adeguare la sua legislazione interna, anche se tale adeguamento non ha ancora avuto ricadute significative nella prassi quotidiana. Tanto che, recentemente, una donna ha vinto un ricorso alla Corte Europea per i diritti umani che, nella sua sentenza, ha condannato la Turchia per non aver protetto quella donna dalle violenze domestiche.
Se così stanno le cose, non c’è da stupirsi che molte donne kurde – diffidenti della giustizia istituzionale – si rivolgano al Dtp per avere giustizia contro i mariti violenti.Lì trovano il sostegno di altre donne, anche se non mancano tra i militanti del Dtp, sacche di indifferenza o peggio ancora di complicità maschile.
Comunque, qualcosa si sta muovendo, se un giudice del Mar Nero ha condannato un uomo che aveva usato violenza alla moglie, a girare per le vie della sua città, con un cartello appeso al collo, in cui si esprimeva vergogna per quanto aveva fatto! Anche se questo episodio citato da Ayse ci suggerisce una riflessione non rassicurante della riedizione della gogna medioevale e ci viene da pensare che non in questa direzione bisognerebbe muoversi. E numerosi sono i casi in cui al marito viene imposto un temporaneo allontanamento da casa, che però non risolve il problema, tanto che poi, spesso, la violenza ricomincia in maniera più feroce di prima. Comunque, tutto ciò fa pensare che la Turchia sia ora costretta, dalla pressione di donne come Ayse, a misurarsi con questa questione e stia cercando, anche se, in modo contraddittorio e ancora troppo timido, una sua strada per affrontare la questione della violenza domestica. Mentre la decapitazione del gruppo dirigente femminile nazionale del partito (sono state arrestate 23 dirigenti), all’indomani delle elezioni di marzo che hanno visto un fiorire di iniziative femminili, è letta da Ayse non solo come ritorsione contro il movimento nazionale kurdo, ma come un colpo di coda di un potere maschile arroccato.
Ayse non si sottrae al confronto sulle questioni di politica generale: rivendica il riconoscimento, da parte dello Stato, dei parlamentari kurdi in quanto kurdi; il diritto all’educazione nella lingua madre; il riconoscimento di Ocalan come interlocutore politico; l’amnistia generale. Constata, con soddisfazione, il rilievo che ha assunto, nella discussione pubblica, la road map di Ocalan. Mentre il movimento kurdo ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale fino al 1° settembre (poi prorogato), sempre più forte è la voce di coloro che lamentano come la Turchia abbia perso tantissimo in questi trent’anni di guerra. Forse anche questa consapevolezza può avvicinare la pace: questa è, almeno, la speranza di Ayse.
C’è tempo ancora per qualche considerazione personale.
Ayse ha 45 anni. Quando le facciamo i complimenti per il suo aspetto giovanile, dice che le donne che lottano non invecchiano. Ha dedicato gli ultimi 23 anni della sua vita alla lotta per i diritti delle donne e quando le chiediamo se è difficile conciliare l’impegno politico – ora il lavoro amministrativo – confessa di non avere una vita privata e di aver dedicato tutta se stessa alla lotta delle donne.
2 agosto 2009 – comizio di Emine Ayna, deputata del Dtp, in occasione della festa per l’inaugurazione del nuovo municipio di Nusaybin
“Ringrazio il sindaco che ha governato, in questi anni, la città, per tutto quello che ha fatto a Nusaybin. Mi auguro che questo spirito animi anche tutti gli altri sindaci della regione.
In questi giorni, tutti parlano di dare una soluzione alla questione kurda: noi aspettavamo che il governo dicesse qualcosa! Il governo, subito dopo le elezioni, ha arrestato molti dirigenti del nostro partito, e noi abbiamo detto: pazienza!
Dopo abbiamo parlato del diritto all’insegnamento in lingua kurda; il governo ha detto: questo è proibito. E noi abbiamo detto, ancora una volta: pazienza! E abbiamo aspettato.
La settimana scorsa, in occasione della riunione del nostro partito, abbiamo ricevuto la notizia della barbara uccisione di due guerriglieri ad Adana; i nostri dirigenti non hanno dormito per due giorni dopo aver visto i corpi torturati e, orrendamente, mutilati. In quest’occasione, i militari hanno fatto uso di armi proibite, armi chimiche. Dopo qualche giorno da questo fatto, abbiamo rinvenuto i corpi massacrati di due dirigenti del Dtp di Beytussebap e poi ancora a Igdir, dove le squadre speciali, dopo aver bloccato un autobus, hanno fatto scendere un dirigente del Dtp e l’hanno ucciso in strada, dicendo che si trattava di un militante del Pkk. Poteva anche esserlo, ma era disarmato, doveva eventualmente essere fermato e condotto in carcere, non doveva essere ucciso, anche se si fosse trattato veramente di un membro del Pkk.
Lo Stato ha abusato a lungo della nostra pazienza, adesso la pazienza è finita!
In questi giorni, il Ministro degli Interni ha parlato della questione kurda; noi abbiamo ascoltato con attenzione: li ha definiti terroristi.”
Emine ha proseguito chiedendo indirettamente al Ministro: “Ma chi sei tu? Come puoi chiamare terroristi i figli di un intero popolo? Fai attenzione a quello che dici: non puoi chiamare terroristi i figli del popolo kurdo: noi abbiamo perso 40 mila persone, 5 mila villaggi sono stati bombardati e distrutti, molte famiglie sono state costrette a migrare perché non c’erano più le condizioni per vivere in quelle case, in quei villaggi distrutti…
Il governo ha parlato di un piano a breve, medio e lungo termine; per quel loro piano a breve termine, noi abbiamo aspettato 6 mesi! Non ne è valsa la pena!
Se si vuole veramente indicare un piano a breve termine, si fermino subito le operazioni militari e vi diamo tempo fino alla scadenza della tregua.
Provate ad immaginare che le operazioni militari vengano realmente fermate. Tutti i cittadini di questo Paese vogliono veramente la fine della guerra, di questo non si può neppur discutere se perdurano le operazioni militari.
Se non ci volete come interlocutori, discutete almeno delle possibili soluzioni della questione kurda con gli intellettuali e gli scrittori del Paese.
E tutti gli intellettuali, anche coloro che sono distanti da noi, hanno detto che occorre fermare le operazioni militari.
Se un giorno voi annuncerete che le operazioni militari sono state fermate, quel giorno sarà un giorno di festa nelle case dei soldati e in quelle dei guerriglieri.
Ora lo Stato vorrebbe risolvere la questione kurda in modo del tutto unilaterale, senza sentire l’opinione del nostro leader, il signor Abdullah Ocalan; ma è lo stesso nostro popolo che dice che voi non potete risolvere la questione kurda senza riconoscerci come interlocutori e senza riconoscere come interlocutore il nostro leader.
Quando due famiglie kurde litigano e chiedono l’intervento del Dtp, noi interveniamo convocando le famiglie e tentando in questo modo di risolvere i loro problemi.
Ma come potete pensare di risolvere il problema di un popolo senza averlo come interlocutore?
Il governo ha anche detto che l’educazione nella lingua madre non si realizzerà mai; ma il governo deve sapere che noi non rinunceremo mai al diritto alla lingua madre.
Se il Pkk non volesse il diritto alla lingua madre, il popolo kurdo lotterà per la propria lingua, senza il Pkk!
Volete liquidare il Pkk, costringere all’espatrio i dirigenti di questo partito? Dovete sapere che, a partire da questo momento, il popolo kurdo non rinuncerà mai a lottare, con o senza il Pkk!
La lotta per la pace è difficile, ma oggi vediamo che l’opinione pubblica, non solo kurda, ma anche turca, è sensibile a questo problema. Anche i partiti più lontani dal nostro, vogliono la pace, anche gli intellettuali che sono contro il Pkk vogliono che questa guerra si fermi!
Durante questo processo di pacificazione, avverranno sabotaggi e provocazioni, come è già successo con le esecuzioni extragiudiziarie a Beytussebap e a Igdir.
Non dobbiamo stare in silenzio contro i sabotaggi alla pace, dobbiamo accompagnare i corpi dei nostri martiri ai funerali con migliaia e migliaia di persone.
Se ci saranno perquisizioni nella sede del Dtp di una città o arresti di militanti, dobbiamo subito mobilitarci e scendere in piazza numerosi.
E quando si celebra un processo importante, dobbiamo occupare il Palazzo di Giustizia.
Il 15 agosto, Apo presenterà la sua road map; molte personalità hanno già manifestato interesse per quest’iniziativa. Anche noi del Dtp, diciamo la nostra: vogliamo che il governo non definisca più terrorista il nostro leader, Abdullah Ocalan; vogliamo che vengano fermate, da subito, le operazioni militari; vogliamo che venga rispettata la volontà del popolo kurdo e che venga riconosciuto come interlocutore Abdullah Ocalan o il Dtp, l’uno o l’altro; vogliamo che venga cambiata la Costituzione risalente al colpo di stato militare del 1980; vogliamo che non si ponga come condizione per avviare eventuali negoziati, la consegna delle armi da parte della guerriglia.
Noi riteniamo che non sia il tempo appropriato per porre questa questione: prima si fermino le operazioni militari, poi, quando il negoziato sarà avviato e la prospettiva sarà più chiara, allora si potrà discutere della questione delle armi.
Il processo avviato è molto importante.
Chiediamo a tutti di partecipare alla Festa del 15 agosto ad Eruh e, successivamente, a Diyarbakir alla manifestazione per la pace del 1° settembre.
Noi kurdi, turchi, noi tutti dobbiamo partecipare a milioni a questa manifestazione perché tutti noi vogliamo la pace.
Per la pace, l’amicizia, la democrazia e l’eguaglianza tra i popoli.”
Uno scritto di Orhan Dogan pubblicato dalla rivista della municipalità di Nusaybin
“Cari e preziosi amici,
scusatemi se non sono stato in grado di far raggiungere la pace…
Le lacrime non hanno colore, ma il sangue sì, il sangue è rosso.
Sia il soldato che perde la vita, come tutti quelli che muoiono sulle montagne, questi sono tutti nostri fratelli.
Fermate, dunque, questa guerra, fermatela…
Sono pronto ad inchinarmi davanti a colui che è in grado di fermare lo scorrere del sangue…”
Ohran Dogan
Si arriva poi alla turrita Mardin, con la sua cittadella merlata, i suoi musei, il suo bazar, le sue terrazze che guardano l’assolata piana mesopotamica, un armonioso mosaico di popoli, di religioni e di culture che convivono da millenni.
Al centro della piana di 400 chilometri di terra fertile che congiungono da Ovest ad Est, il bacino del Tigri (Dicle) con quello dell’Eufrate (Ferat) - terreno del gigantesco sconvolgimento idrogeologico noto come progetto Gap, che con le sue 22 dighe e centrali idroelettriche, darà, entro 10 anni, alla Turchia, il rubinetto dell’oro bianco da drenare verso l’Anatolia ed Israele, a danno del mondo arabo a valle e dei kurdi, costretti a migrare - sorge la città di Urfa, l’antica Edessa, oggi Sanliurfa per le mappe, mitica patria di Abramo, con il suo famoso lago dei pesci sacri e le caratteristiche case ad alveare del vicino villaggio di Harran.
4 agosto 2009 – visita al villaggio di Harran
“Poi Terah prese Abram,suo figlio, e Lot, figlio di Haran, figlio cioè del suo figlio, e Sara sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Arrivarono fino al Harran e vi si stabilirono (Genesi 11,31)
Siamo ad Harran, a 45 chilometri da Urfa, citata nel libro della Genesi, dove avrebbe sostato, per alcuni anni, Abramo con la sua tribù, durante il tragitto da Ur, in Caldea, verso la terra di Canaan.
Difronte a noi, una piana arroventata che guarda al confine siriano, poco distante.
Ci siamo arrivati lungo una strada fiancheggiata da coltivazioni di piante di cotone e pistacchi, resa fertile a seguito dello sbarramento della grande diga Ataturk sul fiume Eufrate, che però ha modificato il clima della zona e costretto all’esodo forzato 200 mila kurdi, sottraendo acqua alla Siria e all’assetato Iraq.
Harran, conosciuta nell’antichità per il culto della dea lunare, Sin dei Sabi, la città era chiamata dai greci Karrai, dai romani Carrhae; fu possesso dei romani, in seguito degli arabi, dei numairidi, dei crociati, di Saladino e dei mongoli.
Harran, con le tipiche case ad alveare, costruzioni di fango e paglia simili ad altre antiche costruzioni del bacino del Mediterraneo, ha ospitato la più antica università del mondo: nel silenzio, ne guardiamo le rovine sotto il caldo del mattino, già torrido, rotto da qualche leggera folata di vento.
Lasciata Urfa, si arriva a Birecik, dove sorgeva il leggendario tempio del peccato e l’antica città romana di Zeugma, una Pompei mesopotamica, sparita a giugno del duemila nel bacino artificiale della diga Ataturk che determinò l’esodo di duecento mila kurdi e la sommersione di numerosi siti archeologici.
Proseguendo verso sud, si scende a Gaziantep, la zona da dove proviene buona parte dell’emigrazione kurda alessandrina, ma anche sede di uno dei più famosi musei archeologici della Turchia.
Si arriva nella città di Adana, dove, recentemente un tribunale ha condannato a pene detentive che raggiungono i 186 anni, 6 mesi e 10 giorni di carcere, 24 bambini, rei di aver partecipato a manifestazioni di protesta, facendo così “propaganda per un’organizzazione terrorista”!
5 agosto 2009 – incontro con l’Associazione delle libertà di Adana (Adana Ozgurlukler Dernegi)
Incontriamo i dirigenti dell’associazione nella loro sede di Adana.
Ci dicono che ieri c’è stata in città una grande manifestazione con tutti i gruppi della sinistra e i kurdi, per Guler Zere, una detenuta condannata all’ergastolo e ammalata di cancro, che il governo, testardamente, si rifiuta di rimettere in libertà.
Guler Zere, 39 anni, era una guerrigliera del DHKC-P, una formazione della sinistra messa fuorilegge dallo Stato, che operava sulle montagne intorno a Dersim.
Arrestata, è stata condannata all’ergastolo ed è in carcere da 14 anni.
“Aveva un rigonfiamento ad un dente – ci dicono - e il dentista del carcere le ha diagnosticato un ascesso, per cui le ha prescritto un’aspirina e degli antibiotici. Prima di arrivare dal dentista, ci sono voluti sei mesi di richieste e di insistenze, in quanto la direzione del carcere non accordava l’autorizzazione!
In seguito, visto che il gonfiore permaneva, Guler ha chiesto di essere portata in ospedale. Anche qui, l’attesa è stata lunga, la direzione del carcere ha accampato molte scuse: non c’era il furgone disponibile, non si trovavano posti liberi… Alla fine, quando è arrivata in ospedale, le hanno dia-
gnosticato un tumore!
Il procuratore ha autorizzato il padre ad incontrarla per quindici minuti a settimana e, solo recentemente, ha ottenuto la possibilità di essere assistita, durante la degenza, da un’amica.
Non mangia e ha una voce molto flebile.
I medici si sono accorti di un secondo tumore: oltre a quello in bocca, ne ha un altro in gola.
Guler Zere oggi è ricoverata in un ospedale di Adana, in condizioni igieniche e sanitarie assolutamente inadeguate, piantonata 24 ore su 24, in una stanza che si trova nei pressi della camera morturaria…
A suo sostegno, c’è in atto una grande mobilitazione delle forze democratiche in Turchia: ieri ad Ankara, e prima ancora ad Istanbul… Il padre di Guler ha incontrato due deputati del Dtp e un deputato del Chp, insieme al presidente della commissione dei diritti umani del Parlamento turco, per perorare la causa della figlia morente in carcere.
Il medico che l’ha in cura e pure quello del carcere hanno detto che non poteva restare in ospedale in quelle condizioni, hanno chiesto che fosse lasciata libera, ma il procuratore ha preteso il parere dell’Istituto di Medicina Legale di Istanbul (14 ore di viaggio d’andata e altrettante di ritorno) e, con una visita che si è conclusa in cinque minuti, è stata decretata la continuazione della sua carcerazione.
In queste condizioni, Guler Zere è destinata a fare la fine di tanti detenuti lasciati morire in carcere, come Ismet Ablak, un detenuto del Pkk, morto recentemente di tumore, lasciato in carcere senza cure…”
5 agosto 2009 – incontro con il procuratore di Adana, Hakan Uyar e conferenza stampa
In giornata, abbiamo chiesto un incontro al procuratore di Adana, Hakan Uyar, il quale ci ha ricevuto nel suo ufficio; durante il colloquio, abbiamo chiesto di poter vedere in ospedale Guler Zere, richiesta che, alla fine, è stata respinta.
In un primo momento, il procuratore si è trincerato dietro gli articoli del regolamento carcerario, i quali prevedono una procedura lunga e farraginosa per concedere l’autorizzazione a visitare detenuti accusati di “terrorismo”; successivamente, a fronte della nostra insistenza, ha dimostrato una maggior flessibilità, salvo poi chiudere repentinamente ogni possibilità di accordo, dopo la telefonata fatta alla Direzione nazionale delle carceri, che ha opposto un netto rifiuto.
Ha concluso l’incontro rassicurandoci sul fatto che non ci sarebbe nulla da temere per le condizioni
di Guler Zere, in quanto si troverebbe in una stanza d’ospedale asettica, curata ed assistita dal personale; la sua camera non si troverebbe nei pressi dell’obitorio, come c’era stato precedentemente detto; come prova, ci ha mostrato una foto di Guler Zere, insieme al padre, in piedi, accanto al letto e tranquilla…scattata il giorno prima (abbiamo poi scoperto trattarsi di una bugia plateale, in quanto il padre, il giorno prima, si trovava ad Ankara per parlare con dei deputati; in realtà, la foto era stata scattata ben ventitrè giorni prima!).
Dopo l’incontro con il procuratore, la delegazione si è recata davanti all’ospedale dov’era ricoverata Guler e dov’era stato allestito un presidio con le sue foto ed uno striscione che chiede la sua libertà; lì, si è tenuta una conferenza stampa di denuncia delle condizioni disumane di detenzione carceraria per Guler Zere, malata di cancro.
Questi i siti che hanno riportato la conferenza stampa: www.firatnews.nu; www.halkinsesi.tv.
5 agosto 2009 – incontro con IHD (Associazione dei diritti umani) di Adana sui minori in carcere
Sono presenti la presidentessa dell’Ihd, Beyhan Gunyeli, e il segretario, avv. Etem Acikalin.
Ci dicono che dal 2006, un’aggiunta all’articolo 9 della legge antiterrorismo, consente alle autorità turche di far comparire davanti alla Corte per crimini organizzati i minori accusati di terrorismo.
Secondo il giornale turco Hurriyet del 9 luglio, oltre mille sono stati i ragazzini tra i 14 e i 17 anni (il più piccolo ne ha 13!) posti sotto custodia negli ultimi due anni, per questa ragione.
La presidentessa dell’Ihd ci parla di 87 ragazzi per i quali il processo si è già concluso, dopo ben 14 mesi: sono stati condannati ad una pena totale di 400 anni di carcere (4 anni e 8 mesi a testa), dai 777 iniziali (8 anni e 6 mesi a testa), ridotti per minore età e buona condotta! L’unica colpa è stata quella di aver tirato dei sassi durante le manifestazioni o aver gridato slogan a favore del Pkk.
Per questo, sono stati accusati e condannati per propaganda e partecipazione ad organizzazione terroristica e per danneggiamenti a proprietà pubblica (per aver divelto dai marciapiedi le pietre che poi hanno lanciato, ovvero per aver rovesciato dei cassonetti dell’immondizia)
Per altri 225 ragazzi, il processo è ancora in corso.
Ma questi numeri si riferiscono solo alla città di Adana e non comprendono gli adolescenti incarcerati a Van, Diyarbakir, Istanbul, Izmir…
I processi sono spesso istruiti sulla base delle testimonianze dei poliziotti che li hanno fermati: per legge, tale testimonianza dovrebbe essere accompagnata da prove oggettive, ma in Turchia basta pronunciare la parola terrorismo per far dissolvere, come neve al sole, ogni garanzia legale.
Processati dagli stessi tribunali che giudicano gli adulti, per loro non ci si avvale della consulenza di esperti: psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, come dovrebbe avvenire quando in gioco ci sono dei minori.
Ma non solo le procedure giuridiche sono quelle riservate agli adulti. Anche il trattamento non prevede sconti.
Condotti dall’antiterrorismo nelle fasi iniziali dell’arresto, vengono tenuti in piedi per ore, maltrattati e spesso picchiati dai soldati e dalle guardie carcerarie. Naturalmente la Procura nega qualsiasi maltrattamento, prestando ciecamente fede alle dichiarazioni dei poliziotti, ignorando i referti dell’Istituto di Medicina Legale e le stesse testimonianze dei ragazzini, che sono numerose e univoche, ma che non possono essere state concordate perché si tratta di ragazzi arrestati e detenuti in luoghi diversi.
Di recente, tre ragazzi tra i 15 e i 16 anni, in carcere da 11 mesi, hanno effettuato uno sciopero della fame durato tre giorni, per chiedere migliori condizioni carcerarie (non è consentito loro l’accesso ad esami medici, ma possono avere solo dei farmaci!), la possibilità di leggere giornali in turco e in kurdo e l’esenzione dallo stare sull’attenti nel momento dell’appello.
Pare che queste richieste siano state accolte. Occorre dire “pare”, perché, oltre a genitori ed avvocati, solo le Commissioni per i diritti umani del Parlamento e della Prefettura competente hanno accesso alle carceri; l’accesso è negato alle ong, come l’Ihd.
In tutta questa vicenda, l’Ihd stigmatizza, con forza, alcuni elementi: la sproporzione tra azione commessa e pena comminata; il ricorso alla carcerazione dei minori come fatto ordinario; il mancato ricorso a tribunali per minori.
Anche le Nazioni Unite si sono accorte di questi abusi che rappresentano una grave violazione delle convenzioni internazionali per i diritti dell’infanzia, firmate anche dalla Turchia, e ne hanno chiesto conto al governo turco che avrà tempo fino all’8 ottobre per rispondere.
L’Unicef, invece, che già aveva posto interrogativi analoghi al governo turco, non ha ricevuto risposta.
Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ed Amnesty International sono intervenuti, per ora senza alcun risultato.
Si vola poi ad Istanbul, ultima tappa del nostro viaggio, per vedere, certo, Santa Sofia, la Moschea Blu e le altre meraviglie del Corno d’Oro, ma anche per partecipare, insieme agli avvocati dell’associazione dei diritti umani IHD, alla manifestazione di piazza Galatasaray delle Madri del Sabato che chiedono, in silenzio, di conoscere la sorte dei loro figli “scomparsi” nelle spire dello “stato profondo”…
5 agosto 2009 – incontro con Yuksel Genc, capo redattrice del giornale filokurdo “Gunluk”
La donna che ci troviamo di fronte è giovane e minuta, graziosa, i capelli raccolti a coda di cavallo. Yuksel Genc è una ex guerrigliera, fece parte della delegazione di guerriglieri che, su invito di Ocalan, si autoconsegnò nel 1999 alle autorità turche in segno di pace, e dovette, per questo, scontare cinque anni di carcere. Ora è caporedattrice del giornale “Gunluk” ed ha recentemente dato alle stampe un libro sulla sua esperienza di vita che stiamo traducendo in italiano per pubblicarlo qui da noi.
Quello attuale è un momento particolare per la Turchia – ci dice – così carico di attese e di speranze, ma anche di incognite e di inquietudini. Per la prima volta, si aprono degli spiragli per una soluzione pacifica della questione kurda. Anzi, non siamo mai stati così vicini alla pace!
Due fattori convergono in questa direzione: innanzitutto le pressioni dell’amministrazione Obama, espressione di gruppi di potere con interessi diversi da quelli dell’amministrazione Bush, e interessata ad attribuire ad una Turchia forte e pacificata, un ruolo chiave in un Medio Oriente in cui i venti di guerra dell’era Bush devono cessare di spirare.
Dall’altra parte, l’establishment si sta rassegnando all’idea di non riuscire a sconfiggere né militarmente, né politicamente, il Pkk.
Le elezioni amministrative del marzo di quest’anno hanno rappresentato un brusco risveglio per quanti speravano in una “debacle” del movimento kurdo: nonostante i forti investimenti del partito islamista Akp del premier Erdogan, che ha tentato di comprare i voti degli strati più poveri della popolazione del sud-est anatolico distribuendo regalie di ogni sorta, i kurdi hanno votato in maniera massiccia per il loro partito, il Dtp, raddoppiando il numero delle municipalità sotto amministrazione kurda, che sono ora diventate un centinaio.
I kurdi hanno capito che non stavano votando solo per il rinnovo delle amministrazioni locali, ma che stavano votando per affermare la loro identità, il loro diritto ad esistere.
Due le rivendicazioni chiave: a) diritto alla lingua madre; b)autonomia democratica, intesa come autonomia delle amministrazioni locali, aperte alla partecipazione democratica di tutti, senza distinzioni di etnia, credo religioso, cultura…
Spietata è stata la reazione del regime, che ha fatto arrestare in tutto il Paese, oltre 400 dirigenti e militanti del Dtp, tra cui 23 donne; in pratica, è stato decapitato il gruppo dirigente!
Non solo, ma per ben due volte in un solo mese, è stato chiuso il giornale Gunluk e sono stati aperti numerosi processi contro giornalisti e redattori, compreso il processo contro di lei, addirittura accusata di propaganda sovversiva, per un’intervista concessa dall’avvocato di Nelson Mandela, intervista in cui ci si chiedeva se le condizioni di detenzione di Ocalan potevano essere paragonabili a quelle di Mandela …
Ciò nonostante, la pacificazione della Turchia passa da una soluzione non militare della questione kurda, e, quest’ultima, a sua volta, passa dal riconoscimento di interlocutori politici non di comodo tra i kurdi. L’opinione pubblica turca sta forse incominciando a capirlo.
Sui mezzi di comunicazione turchi e nell’opinione pubblica, si è aperto un dibattito fino a poco tempo fa impensabile: i giornalisti incalzano gli esponenti governativi chiedendo loro se intendono incontrare esponenti e parlamentari del Dtp. Il Ministro degli Interni e lo stesso premier Erdogan sono stati costretti sulla difensiva, distinguendo tra questione kurda e terrorismo (e, implicitamente, accusando di terrorismo il Dtp), ricordando i soldati turchi uccisi dal Pkk.
Ma il 5 agosto, Erdogan è stato costretto ad incontrare Ahmet Turk, presidente del Dtp.
Certo, ha detto di farlo in qualità di leader dell’Akp, non in qualità di capo del governo, ma intanto ha dovuto infrangere il tabù.
Grande merito di tutto ciò spetta al leader del Pkk, Abdullah Ocalan, che dal suo totale isolamento nell’isola – carcere di Imrali in cui è detenuto dal 1999, è riuscito ad incunearsi nella nuova dinamica internazionale, preannunciando, per il 15 agosto, una road map, una sua proposta di soluzione della questione kurda, sollevando il dibattito nel Paese e mettendo in difficoltà il governo.
Il Pkk ha fatto proprio l’annuncio di Ocalan dichiarando un cessate il fuoco unilaterale fino al 20 settembre; un cessate il fuoco che non potrà essere rinnovato se non tramite accordi bilaterali.
Non è infatti possibile la riedizione dei cessate il fuoco unilaterali che sono costati la vita nel 1999 a 500 giovani guerriglieri, perché mai rispettati dalle forze armate turche e che ha anche fatto arrestare e incarcerare le due delegazioni – una proveniente dalle montagne e un’altra dall’Europa – che si erano autoconsegnati in segno di pace (l’ultima donna ancora in carcere, facente parte della delegazione, è stata scarcerata proprio il 5 agosto, dopo 10 anni di carcere).
Nessun dirigente kurdo, per quanto autorevole, può più chiedere sacrifici come questo al proprio popolo. Quegli errori non si ripeteranno più!
Intanto, la società civile kurda, sull’onda dell’annuncio di Ocalan, sta dispiegando una vera e propria offensiva diplomatica dal basso: si susseguono gli incontri tra intellettuali kurdi e turchi; le donne kurde sono entrate in contatto con le donne turche ed, insieme, stanno organizzando una veglia di pace, una sorta di interposizione tra i soldati turchi ed i guerriglieri a Bercala, nei pressi di Hakkari, sul confine tra Iraq e Turchia.
Le Madri della Pace hanno manifestato davanti alla sede dello Stato Maggiore dell’esercito per chiedere di fermare le operazioni militari. E, cosa straordinaria, è che singoli segmenti della società civile turca – una società fortemente impregnata di nazionalismo sciovinista – rispondono positivamente a questa apertura.
La Confindustria turca ha chiesto un incontro al Dtp, ben prima che Erdogan accettasse l’incontro del 5 agosto.
E un incontro è stato chiesto da un gruppo di ufficiali di rango inferiore dell’esercito turco. Potrebbe essere il sintomo di contraddizioni che si stanno aprendo anche all’interno dell’esercito, segnale da non sottovalutare, perché un gesto del genere richiede molto coraggio in un Paese in cui i rapporti sui diritti umani segnalano tantissime vittime di strani incidenti mortali, mai chiariti, tra i soldati di leva, caso strano, tutti giovani e tutti appartenenti a minoranze etniche o religiose, ovvero simpatizzanti della sinistra.
Certo, il cammino verso la pace non è ancora stato imboccato e sarebbe sbagliato farsi illusioni.
Probabilmente, Erdogan spera di poter disinnescare la miccia kurda con poche concessioni unilaterali, dall’alto, senza concordarle con interlocutori kurdi, concessioni relative a limitati diritti linguistici e culturali.
Intanto, sono tornate numerose le segnalazioni di violenze sessuali contro le donne arrestate – militanti del Dtp o attiviste per i diritti umani, violenze che si verificano soprattutto in caso di arresti isolati, non di gruppo, nella prima fase successiva all’arresto: un problema che si è riacutizzato, tanto che, ogni settimana, si susseguono, nelle varie città del Sud-est della Turchia, da Batman a Diyarbakir, ad Hakkari, manifestazioni di donne contro la violenza sessuale, ad opera delle forze di sicurezza.
Ma il motivo vero di inquietudine, secondo gli interlocutori kurdi, sta nel comportamento dell’esercito. L’esercito è già stato indebolito dal caso Ergenekon con un processo contro le alte sfere accusate di condurre una “guerra sporca” contro gli oppositori ed, in generale, di trame antidemocratiche. Una parte dell’opinione pubblica turca è diventata più consapevole del pericolo che l’esercito turco rappresenta per la democrazia, un po’ meno dei crimini commessi dai militari contro i kurdi.
Ma settori di quello che in Turchia chiamano lo “stato profondo”, cioè alcuni gangli di potere particolarmente oscuri e torbidi, hanno tutto l’interesse a bloccare sul nascere quel processo dinamico di discussione pubblica sulla questione kurda che si è innestato negli ultimi mesi. Pensiamo a settori dell’esercito, ma, soprattutto, dei partiti nazionalisti laici ed islamici – le cui responsabilità nella violazione dei diritti umani, a differenza di quelle dei militati, non sono ancora emerse con nettezza agli occhi dell’opinione pubblica – agli stessi “guardiani di villaggio”, corpo paramilitare che ha, tuttora, una consistenza numerica di 70 mila effettivi, agli squadroni della morte: tutti soggetti che potrebbero essere interessati a mettere in atto provocazioni, a dare vita ad una sorta di “strategia della tensione”, una strategia che può essere rimessa in auge da chi non si rassegna a perdere la rendita di potere rappresentata dalla guerra. Quegli stessi che, nell’arco di una sola settimana, hanno assassinato sei persone, tra cui un bambino di 10 anni, nipote del presidente del Dtp di Hakkari.
E’ solo uno spiraglio quello che si è aperto in queste settimane in Turchia, niente più che uno spiraglio, a 25 anni di distanza da quel 15 agosto 1984, data di inizio della rivolta armata del Pkk.
Se l’Europa fosse saggia e lungimirante, quello spiraglio farebbe di tutto per tenerlo aperto e magari allargarlo, senza perdere questa volta l’occasione – la seconda da quando Ocalan approdò in Europa nel 1998 – di giocare un ruolo attivo nella costruzione di una pace giusta in quell’area.
7 agosto 2009 – Istanbul, manifestazione per Guler Zere
Risaliamo la Istiklal Caddesi verso Taksim da cui alle 19.00 prenderà avvio la manifestazione unitaria che chiede la sospensione della pena dell’ergastolo per fini medici e la liberazione di Guler Zere. Arrivati all’altezza di piazza Galatasaray, cuore di tante manifestazioni politiche, ci imbattiamo in un sit in.
Molti giovani sono seduti a terra e scandiscono slogan; è l’Onda turca, sono studenti che protestano contro l’aumento delle tasse universitarie.Davanti ai giovani, sono sistemati dei microfoni, ma non c’è un comizio, i microfoni servono a due giovani che suonano la chitarra. Un terzo uomo, d’età più avanzata, intona “Dido”, il capolavoro di Kazim Koyuncu, cantautore del Mar Nero, morto giovanissimo di tumore, in seguito all’incidente di Chernobyl.
Tutti i giovani intonano in coro il ritornello, poi alcuni si alzano e incominciano a danzare tenendosi per mano. Altri loro compagni si uniscono via via alla catena.
La manifestazione è gioiosa, non arrabbiata o cupa. Solo una ragazza si alza dal sit in rivolgendosi agli astanti che si sono fermati intorno, rimproverandoli con rabbia di assistere passivamente, senza prendere posizione, e li invita a firmare una petizione di appoggio alla loro lotta.
Gli altri giovani annuiscono e qualcuno applaude.
Lei torna a prendere posto tra i suoi compagni, ancora alterata in viso, mentre i giovani con la chitarra intonano altre due canzoni. Altri ragazzi ballano formando un girotondo.
Veniamo raggiunti dal presidente dell’ Ihd di Adana che avevamo conosciuto alla riunione della sera prima e, insieme, decidiamo che è tempo di lasciare i giovani dell’Onda per raggiungere piazza Taksim.
Strada facendo, incontreremo dei cellulari della polizia diretti verso piazza Galatasaray, dove si concluderà la manifestazione per Guler Zere, e provenienti da Taksim.
Capiamo subito che il dispiegamento di forze sarà massiccio. A Taksim, già sono schierati altri reparti di polizia e abbiamo timore che tutto possa degenerare.
A Taksim, si era già radunata una piccola folla di manifestanti, che man mano s’ingrossa sempre di più.
Raggiunta una certa massa critica, i manifestanti si predispongono a dare inizio alla manifestazione: per alcuni minuti, gridano slogan, poi iniziano a sfilare lungo Istiklal Caddesi.
Alcuni di noi, sono in prima fila e reggono anche dei cartoncini plastificati con l’immagine della detenuta politica, Guler Zere.
All’inizio, sentiamo una tensione molto forte, poi, mentre il corteo sfila pacificamente, subentra uno stato d’animo più sereno.
L’età media dei manifestanti è molto bassa, ci sono molti giovani, persino adolescenti.
Pare che in Turchia non ci siano difficoltà nei rapporti con le giovani generazioni da parte dei gruppi organizzati e delle associazioni.
Non mancano, ovviamente, persone più adulte o anche anziani. Qualche mamma ha portato anche il suo bambino.
Dall’inizio del corteo, partono gli slogan che poi, quando si spengono, vengono ripresi da altri segmenti del corteo. A volte, gli slogan lasciano il posto al battito ritmico delle mani, sempre più accelerato, fino ad essere velocissimo. Dalle finestre dei sontuosi e raffinati edifici di Istiklal Caddesi si affacciano delle persone: molte applaudono al passaggio del corteo.
Forse la minoranza che sfila non è poi così isolata.
Si arriva infine a piazza Galatasaray e qui ha luogo il comizio finale.
Tra gli interventi – la manifestazione è stata indetta da un ampio cartello di forze e di associazioni – dal palco si annuncia la presenza di una delegazione italiana e si da la parola ad un rappresentante della delegazione che esprimerà un breve messaggio di solidarietà e di vigilanza internazionale sulla questione dei diritti umani, tradotto come sempre in turco dalla nostra impareggiabile interprete.
8 agosto 2009 – manifestazione delle Madri di Piazza Galatasaray
Da qualche mese, sono riprese al sabato le manifestazioni delle Madri di Piazza Galatasaray. Le Madri manifestano settimanalmente per chiedere verità e giustizia per i loro figli e nipoti scomparsi – kayplar – o vittime delle esecuzioni extragiudiziali.
L’appuntamento è per mezzogiorno a piazza Galatasaray.
Vediamo molte donne anziane arrivare in gruppo, vestite con gli abiti tradizionali e con il caratteristico fazzoletto bianco delle donne kurde, usato anche dalle Madri della Pace.
Ci sono anche degli uomini anziani con il vestito tipico dei contadini dell’Anatolia.
Uomini e donne giovani sono invece vestiti all’occidentale.
Ci sono anche numerosi bambini.
Alcune donne tolgono dalla borsa le foto incorniciate dei loro figli, le accarezzano con affetto e si predispongono a mostrarle.
Qualcuno tra gli organizzatori incomincia a distribuire tra i presenti, dei cartoncini plastificati con le foto degli scomparsi: ogni foto, un volto, un nome, una storia tragicamente interrotta.
Altri distribuiscono dei garofani rossi, ad esprimere l’affetto e la nostalgia per chi non c’è più.
Ben presto, tutti i presenti hanno in mano una foto ed un fiore.
Ad un segnale, ci si siede per terra per un sit-in silenzioso. Chi non ha trovato posto si assiepa intorno, sempre tenendo ben alta la foto di uno scomparso.
Il silenzio parla più di tanti slogan.
Alcune persone si alternano al microfono per narrare la storia di uno scomparso, quello cui è dedicata la manifestazione di quel giorno.
Così la memoria di quella vita diventa memoria collettiva, che appartiene a tutti.
Ad Hakkari, Van, Siirt, Sirnak, Cizre, Nusaybin, Diyarbakir e in altre città grandi e piccole, si sono insediati, a marzo di quest’anno, numerosi sindaci filokurdi. E’ il loro partito, il DTP, la rete del nuovo tessuto democratico e partecipativo, divenuto il primo partito delle dieci province kurde, in un territorio dove è calata pesantemente la spirale repressiva contro dirigenti e militanti.
Sono almeno 300 i membri del partito filokurdo tuttora in carcere, mentre gli arresti continuano, non soltanto nelle province kurde del Sud Est, ma anche ad Istanbul, Ankara e nelle altre metropoli turche.
Come ambasciatori di un’altra Europa possibile, vogliamo portare la nostra solidarietà a chi, ancora oggi, patisce prigione e tortura.
Saremo chiamati a guardare e ad incontrare l’altra faccia delle cartoline: i profughi, le prigioni, la tortura coraggiosamente testimoniata da medici ed avvocati, i bambini di strada – oltre 30 mila nella sola Diyarbakir – le associazioni a continuo rischio di chiusura, le donne che si battono contro vio-lenza e delitti d’onore…
Un viaggio nell’antica terra di Mesopotamia, attraverso un’umanità che vuol conoscere e farsi riconoscere, oltre il muro imposto del silenzio.
Lerzan, Guler, Gulcihan
Lerzan è un nome che nasce per caso: due genitori, due bussolotti con due nomi lanciati per aria, per tre volte, e sempre compare Lerzan. Significa tremore in italiano. Mai l’ho vista tremare, neanche di fronte ai militari con i mitra spianati, che a me qualche tremore invece lo procuravano.
Se il nome è la cosa, non vale per Lerzan!
Lerzan è una donna turca - a suo tempo giovane studentessa universitaria ribelle al colpo di stato militare del 1980, da sempre attivista per i diritti umani, laureata in letteratura francese, che, per nostra fortuna, parla anche l’italiano, così che ci è diventata indispensabile nei nostri viaggi di solidarietà e di conoscenza attraverso il dramma di quel popolo invisibile - ma sarebbe meglio dire che Lerzan è una cittadina del mondo. Che vuole cambiare, perché ingiusto. Come è ingiusta la Turchia, dove Lerzan è nata e vive. E dove si occupa delle condizioni dei detenuti e delle detenute, minorenni compresi: circa 120 mila, il doppio dei detenuti in Italia, pur avendo una popolazione di 70 mila abitanti.
Se la civiltà di un Paese si giudica anche per come si finisce e si sta in carcere, la Turchia è messa proprio male.
Si può finire in carcere perché si manifesta per rivendicare diritti e giustizia, perché si parla in kurdo, perché si pubblica un’intervista all’avvocato di Nelson Mandela… e poi aspettare tre anni per sapere i capi d’accusa, e poi, ancora, attendere i tempi del processo…
La Turchia, del resto, è il Paese che da dieci anni tiene segregato in un carcere su un’isola-lager, unico detenuto dell’isola sorvegliato giorno e notte da ben 1.500 guardie, il leader kurdo Abdullah Ocalan – che, per la sua vicenda, richiama appunto Nelson Mandela – un leader riconosciuto ed amato da un popolo di 20 milioni di kurdi, presenti nel Sud – est della Turchia, un quarto o poco meno dell’intera popolazione.
Ma le carceri turche “ospitano” anche Guler Zere, una donna ex guerrigliera di 39 anni, in carcere da 14, affetta da cancro, che non ha ricevuto né riceve ora cure adeguate.
Da molti mesi, Lerzan e molti con lei (l’abbiamo fatto anche noi), scendono in piazza in tutte le città della Turchia per chiedere la sospensione della pena e la sua liberazione.
Arroccati e sordi ad ogni richiesta di umanità, fino ad oggi, i responsabili annidati nelle istituzioni.
Così come sono sordi, anche politicamente, quando arrestono e mettono in carcere, circa 400 dirigenti del Dtp – il partito filokurdo con rappresentanza parlamentare, maggioritario nelle zone kurde – e, tra questi arrestati, anche tanti sindaci ed ex sindaci. Una tra questi è nostra amica, l’abbiamo ospitata l’anno scorso in Alessandria, una giovane donna, particolarmente impegnata sulla questione femminile: Gulcihan Simsek, poco più che trentenne, credo, alla sua prima esperienza di carcere.
L’accusa? Ci sono tre anni di tempo per formularla!
Tre donne, una libera che sa di esserlo provvisoriamente, perché il suo impegno, ancorché pacifico, potrebbe causarle, in ogni momento, l’arresto; le altre due in carcere, per il loro impegno contro le ingiustizie.
Come e cosa fare affinché siano libere di contribuire al processo di liberazione da una condizione che, in quella parte del mondo, colloca le donne dopo il maschio e la mucca?
Una testimonianza di Sabatino, di ritorno
dal viaggio in Kurdistan
Nella città di Diyarbakir abbiamo avviato, da anni, progetti di sostegno a distanza delle famiglie dei detenuti politici, aiuti per l’associazione degli handicappati e un progetto pilota per i bambini che lavorano in strada nella sottomunicipalità di Baglar; qui, abbiamo partecipato ai processi, di cui sono state vittime, i sindaci di Sur, Abdullah Demirbas, e di Diyarbakir, Osman Baydemir, accusati di voler stampare una brochure multilingue per pubblicizzare i servizi della municipalità…
26 luglio 2009 – incontro con il vice sindaco di Sur - Diyarbakir, Mehmet Alì Altun Kairac
A Sur, sottomunicipalità di Diyarbakir, dove convivono varie minoranze (assiriani, armeni, caldei, turchi e kurdi), abbiamo incontrato il vice-sindaco, nonché assessore alla cultura della municipalità, Mehmet Alì Altun Kairac; assente il sindaco, Abdullah Demirbas, impegnato in una importante riunione.
Il rappresentante della municipalità ci ha parlato delle recenti elezioni, vinte con il 64.3% di voti, per il partito filokurdo DTP (Partito della società democratica), nonostante i vari condizionamenti sul voto da parte del governo (regalie, intervento dei clan, delle tribù…; nella sola Diyarbakir, il governo ha speso 120 trilioni di lire turche per “comprare” i voti dei kurdi, senza successo!); si è soffermato a lungo sul pesante clima repressivo che si respira in città e in tutta la regione.
Il sindaco, Demirbas, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per aver “osato” fare dichiarazioni sulla guerra “sporca” che insanguina l’area da tre decenni. Ora si attende il verdetto della Corte di Cassazione: se venisse condannato, sarebbe automaticamente destituito e, per lui, si aprirebbero le porte del carcere!
Per quanto riguarda l’altro processo ancora in corso, ovvero quello relativo alla pubblicazione di brochure multilingue, tra cui il kurdo, sta capitando un fatto strano, che dimostra come le leggi vengano utilizzate, in modo discrezionale, solo contro la minoranza kurda; infatti, il Prefetto della città sta facendo la stessa cosa in varie lingue, ma lui non è stato denunciato! Le leggi vengono applicate a senso unico; ciò che è proibito per i kurdi, non lo è per altri!
Arresti e torture continuano; vietato dare nomi kurdi ai propri figli, vietato ripristinare i nomi kurdi di villaggi e città; chiudono i canali televisivi kurdi, ma loro stessi violano le leggi e la Costituzione, istituendo un canale nazionale “addomesticato” in lingua kurda, TRT6 (c’è una legge che dice che, fuori dalla lingua turca, tutte le altre lingue sono proibite!).
Adesso il governo cerca di creare i “suoi” kurdi, come ha già fatto con gli aleviti: li chiama “kurdi bianchi”!
Il governo ha in mente tre scenari:
fare in modo che la road map che proporrà Ocalan, non venga realizzata;
avanzare una proposta minimale per la soluzione della questione kurda;
continuare la politica “antiterrore” in corso.
Al contrario, il DTP ha in mente un progetto di forte decentramento, che va sotto il nome di “autonomia democratica”.
Tra i problemi sicuramente prioritari per la municipalità di Sur, vi è quello relativo all’afflusso dei profughi, contadini che sono stati costretti a lasciare i loro villaggi. Vi è una popolazione molto povera. Ma chi soffre veramente di più sono i bambini e le donne.
La municipalità sta lavorando affinché le bambine frequentino regolarmente i corsi scolastici, affinché i ragazzi accedano ai corsi gratuiti per gli esami universitari, affinché siano ripristinate le migliaia di “carte verdi” cancellate (la “carta verde” dà diritto all’accesso gratuito ai medicinali) e in aiuto alle famiglie in difficoltà.
26 luglio 2009 – incontro con la municipalità di Baglar – Diyarbakir
Abbiamo parlato del progetto, finanziato dall’Auser Piemonte e dall’Associazione Verso il Kurdistan – onlus, relativo ai bambini che lavorano in strada, progetto per il quale è stata versata, in quest’occasione, l’ultima rata di 6 mila euro (il costo totale del progetto era di 40 mila euro).
I rappresentanti della municipalità ci dicono che il progetto pilota sta andando bene: era stato previsto per 30 bambini, ma adesso la struttura ne ospita 60.
Oltre a questo, aiutano le famiglie dei bambini con vestiti, anche denaro (ma solo per le più povere!), pagano i libri scolastici, aiutano le donne a trovare un’occupazione attraverso la cooperativa di recente costituzione, “Berfin” (Bucaneve).
Tra non molto, i bambini pubblicheranno un giornalino che – ci promettono – verrà inviato anche a noi in Italia.
26 luglio 2009 – visita alla baraccopoli kurda, Fiskaya
All’estrema periferia est di Diyarbakir, scendendo verso il Tigri, con vista sulle mura e i torrioni che abbracciano la città, c’è la baraccopoli kurda di Fiskaya: 5 mila profughi, per la maggior parte famiglie fuggite negli anni 90 del conflitto dai loro villaggi distrutti dall’esercito, case e baracche messe su in fretta e furia, alcune pericolosamente abbarbicate a precipizi, sovente incomplete, un saliscendi di gradini scavati direttamente nella roccia, stradine inesistenti, stalle per gli animali tra le casupole e capre che brucano qualche raro ciuffo d’erba in mezzo a montagne d’immondizia, le donne che si affacciano alle finestre, dietro le grate, per guardare, nugoli di bambini scalzi che ti circondano chiedendoti l’elemosina o solo una foto, una povertà nera e profonda, nessun servizio, forse unicamente un piccolo ambulatorio che però non abbiamo visto.
Un anziano ci ha raccontato che vive lì ormai da 36 anni, lì sono cresciuti i suoi figli e i suoi nipoti; solo chi ha denaro può andarsene – ci dice - alla ricerca di posti migliori per vivere.
Da Diyarbakir, si sale verso Hasankeyf, per vedere, forse per l’ultima volta, i resti di dodici millenni di storia, prima che li sommergano le acque della diga di Ilisu, complice una cordata di banche ed imprese europee di cui fa parte anche una controllata austriaca dell’italiana Unicredit, proprio per impedire che sia l’ultima volta.
Hasankeyf, capitale degli antichi regni d’Anatolia, vero e proprio museo all’aperto, che ospita, oltre a chiese e moschee, anche la tomba del sultano Suleymano, diretto discendente di Maometto, una città che ha conosciuto ben nove civiltà diverse, ognuna delle quali ha lasciato testimonianze ed un nome: Hasankayef in turco, Kiphas in greco, Cepha in latino, Hisna Kayfa in arabo, Heskif in siriaco aramaico, Hasankeyf in kurdo.
Luogo d’incontro delle tre grandi religioni monoteistiche – la cristiano ortodossa, quella cattolica siriana e quella islamista – le sue torri hanno visto passare arabi, mongoli, persiani, turcomanni, ottomani.
Da Hasankeyf si scende verso Batman, dove arrivano i terminal petroliferi che, insieme all’acqua, formano la rete autostradale dell’energia anatolica; poi si viaggia verso Siirt, centro di lavorazione dei tessuti di lana mohair e patria dei tradizionali pistacchi, dove incontreremo le famiglie dei detenuti e dei martiri dell’associazione Sthay der e, dove, insieme al sindacato insegnanti, Egitim Sen, abbiamo contribuito ad avviare un progetto di doposcuola per i bambini profughi.
Da Batman verso Siirt, lungo una strada che corre a lato di una fila infinita di pali della luce, in cima ai quali nidificano le cicogne, una per ogni palo: animali belli e raffinati, il corpo sottile ricoperto da un piumaggio bianco e nero, stavano immobili, ritte sulle loro lunghe gambe, sopra ai nidi, ad osservarci…
27 luglio 2009 – incontro con il sindaco di Siirt, Selim Sadak
L’incontro avviene in municipio, alla presenza del sindaco e di rappresentanti dei coltivatori di pistacchi.
“Questa città è tra le più povere- ci dice - Il municipio non ha un servizio sanitario, non ha neppure un’ambulanza. Non ci sono neanche i pompieri, o meglio, ci sono, ma possono intervenire solo fino al 4° piano! Non ci sono parchi per i bambini, non c’è un centro culturale comunale.
Le campagne sono molto fertili, il 50% della rendita della città viene dall’agricoltura, si producono i migliori pistacchi di tutta la Turchia (li chiamano “oro verde”), però non ci sono né strutture, né mercati per la commercializzazione del prodotto…
Abbiamo bisogno di fare un lavoro serio per far conoscere al mondo i pistacchi di Siirt.
Oggi qui ci sono 5 mila produttori di pistacchi, di cui 500 sono riuniti in cooperativa.
Hanno degli obiettivi minimi:
una fabbrica/deposito per lavorare i pistacchi, il cui costo preventivato si aggira intorno ai 50 mila euro (progetto per il quale stanno ricercando i finanziamenti);
la volontà di far conoscere la produzione di pistacchi di Siirt anche all’estero, partecipando alle fiere che vengono indette, soprattutto in Europa.”
27 luglio 2009 – incontro con la famiglia di Ali Cekin nel quartiere Evren di Siirt
Il marito è morto in carcere di tumore, la moglie – Hediye Cekin – ha 77 anni, proviene dal villaggio di Heraris (nome kurdo; in turco, fa Osbasoghu) che è stato bruciato dai militari nel corso degli anni ’90 durante i periodi più duri del conflitto.
Ricorda che quel giorno, i militari, dopo aver bruciato le case, hanno fatto scavare una fossa nel centro del villaggio e lì, sul posto, hanno barbaramente ucciso 4 persone; un quinto è stato gettato da un elicottero.
In seguito sono arrivati nella città di Siirt, nel quartiere dove abitano tuttora.
Hediye Cekin ci racconta che, alcuni anni fa, è arrivata dalle montagne una ragazza – una guerrigliera - a chiedere ospitalità. Tre giorni dopo, sicuramente a seguito di una “soffiata”, è arrivata la polizia ed ha tratto tutti quanti in arresto.
Come già detto, il marito è morto di tumore, praticamente senza cure, in carcere; la moglie ha scontato anch’essa tre anni e mezzo di prigione ed è stata rilasciata meno di un mese fa; anche il nipote, che viveva in casa con loro, ha subito il carcere: l’accusa, per tutti quanti, è di aver aiutato un’organizzazione terrorista.
Una cognata che è presente in casa, Meryem Demir - abitava il villaggio di Gere (nome kurdo; in turco, fa Gevrimli), - ci racconta di un episodio che ha coinvolto, a suo tempo, il padre, insieme ad altri: un pulmino con 12 persone a bordo era esploso nel 1994 in un attentato attribuito al PKK, che invece aveva smentito il proprio coinvolgimento.
A distanza di anni, si è scoperto che le vittime erano state convocate in caserma, chiedendo loro di “collaborare”: al loro netto rifiuto, erano state uccise a bastonate, in commissariato, ed i loro corpi erano stati caricati su un pulmino per organizzare la tragica messinscena.
Nelle cause intentate dalle famiglie contro lo Stato per avere giustizia, c’è stata, per ultima, la sentenza della Corte di Giustizia di Strasburgo che riconosce la versione dei fatti denunciata dalle famiglie delle vittime e condanna lo Stato a pagare 20 mila euro per ogni persona assassinata.
Adesso il loro villaggio non esiste più, sono stati sfollati dall’esercito, perché hanno rifiutato di diventare “guardiani di villaggio”.
La popolazione del quartiere Evren di Siirt è di 15 mila abitanti e il 90% delle persone si portano dietro storie simili. Quasi ogni famiglia del quartiere ha un parente in carcere per motivi politici.
27 luglio 2009 – incontro con il presidente di Tuhad Der di Siirt, Arafat Aksu
L’incontro con Arafat Aksu è incentrato sulla particolare situazione del carcere di Siirt.
Il carcere di Siirt – ci dice – è un carcere di tipo E, con celle predisposte per ospitare da 6 ad 8 - 10 detenuti, ma, in realtà, le persone rinchiuse sono molte di più.
La sveglia per tutti arriva alle 6.00 del mattino; aprono la cella alle 7.00 ed i detenuti di quella singola cella possono accedere ad un piccolo cortiletto interno, chiuso, che non permette contatti con i detenuti di altre celle, fino alle 20.00 di sera.
L’acqua in prigione arriva per mezz’ora al mattino; un’altra mezz’ora al pomeriggio e mezz’ora alla sera.
C’è un solo medico per tutto il carcere, ovvero per assistere 690 detenuti, di cui 234 sono i “politici”; in carcere, ci sono pure 6 – 7 ragazzini con meno di 14 anni accusati di reati di “terrorismo” per aver lanciato sassi contro la polizia durante le manifestazioni.
Non esiste un’età minima per non essere puniti dal punto di vista penale: anche a 6 anni si può andare in carcere!
La maggioranza dei guardiani è composta da turchi.
Ai parlamentari turchi è vietata la visita delle carceri e dei detenuti.
Tra Diyarbakir, Batman , Siirt e Mardin risultano arrestate oltre 250 persone a seguito delle operazioni di polizia post elettorali.
Lasciando Siirt, si sale verso la città di Van, a 1.700 metri d’altezza, adagiata sulle rive del lago omonimo, dalle isole ricche di storia, come quella di Akdamar, che emerge dalle acque con il suo gioiello incastonato ad est: una chiesetta armena, in arenaria rossa, straordinariamente decorata e oggi restaurata.
Van è dominata da un castello grandioso ed austero, ricco di scritte cuneiformi. La città fa risalire le sue origini leggendarie al gigante Gilgamesh e al diluvio universale; la storia, invece, parla del regno di Urartu, quasi tremila anni addietro.
E’ in questa città che la nostra delegazione di osservatori della società civile ha vissuto la straordinaria vittoria elettorale del partito filokurdo DTP, dopo le tremende giornate del Newroz 2008, costato due morti e centinaia di arresti e feriti.
29 luglio 2009 – incontro con la nuova sindaca di Bostanici, Nehazat Ergunes
Incontriamo la neoeletta sindaca di Bostanici, Nehazat Ergunes, che ci offre una colazione all’aperto, in un bel prato.
Bostanici è una cittadina sulle sponde del lago di Van che conta ufficialmente 8.500 abitanti; in realtà, vi risiedono 20 mila persone; la popolazione è più che raddoppiata a seguito della violenta repressione che ha scacciato migliaia di persone dai loro villaggi.
Nehazat Ergunes ha lavorato per 20 anni come impiegata presso il municipio di Van, e, successivamente, per ulteriori 7 anni, come dirigente del DTP.
Quando le chiediamo il suo stato d’animo difronte alle nuove responsabilità di sindaco, risponde che la fa stare male la discrasia tra le tante esigenze dei suoi concittadini e gli esigui mezzi a sua disposizione per soddisfarle.
Le risorse economiche sono scarse perché scarsi i fondi messi a disposizione dal governo centrale, mentre la povertà della popolazione riduce la possibilità di attingere a risorse tramite tassazione locale.
I trasferimenti del governo sono soggetti a oscillazioni imprevedibili a seconda dell’andamento economico generale, e, in genere, bastano a malapena a pagare i 51 funzionari comunali.
In questa situazione, la cooperazione internazionale riveste un ruolo molto significativo.
Siamo qui anche per fare il punto sul progetto fognario finanziato da ATO5, ATO6 e dal Comune di Alessandria.
Il progetto, presentato, a suo tempo, dalla municipalità di Bostanici ammontava a 210 mila euro.
Il finanziamento finora concesso ammonta a 60 mila euro, di cui 40 mila già trasmessi (ma l’Istituto per la cooperazione allo sviluppo di Alessandria ha ipotizzato di concedere un ulteriore finanziamento, se reperirà i fondi necessari).
La sindaca Nehazat Ergunes ci prospetta un altro problema: la necessità di costruire un altro deposito per la raccolta dell’acqua, in quanto nel serbatoio attualmente in funzione è stata accertata la presenza di arsenico, infiltrato dal sottosuolo.
L’Ufficio Sanitario della città ha diffidato l’amministrazione comunale dal distribuire alla cittadinanza l’acqua raccolta in quel serbatoio; l’amministrazione comunale ha fatto ricorso, ma i tribunali hanno sancito che la municipalità dovrà far fronte, con proprie spese, senza alcun aiuto economico da parte del governo centrale, all’obbligo di garantire alla popolazione l’accesso all’acqua non inquinata.
Da qui il loro appello alla cooperazione internazionale per costruire un altro serbatoio che attinga ad un’altra falda acquifera.
Chiediamo a Nehazat Ergunes se anche a Bostanici esiste la piaga dei suicidi di donne che, in realtà, mascherano i “delitti d’onore”.
La sindaca risponde affermativamente, ma spiega anche come, a suo parere, quelli che sono considerati “delitti d’onore”, affondano le loro radici in situazioni di povertà e di disoccupazione e nella disperazione da esse ingenerata.
Il problema riguarda, in particolare, la popolazione inurbata dalle campagne, a seguito della distruzione dei villaggi da parte dell’esercito. Le donne dei villaggi avevano un ruolo sociale e lavorativo, essendo impegnate in campagna accanto agli uomini. In città, le donne vivono isolate, incapaci di costruire relazioni esterne alle famiglie e impossibilitate a ritagliarsi un proprio ruolo lavorativo e sociale al di fuori della casa.
Sugli uomini si riversa, giocoforza, tutto il peso del mantenimento della famiglia.
In un contesto di disoccupazione generalizzata, esplode la violenza maschile sulle donne e sui figli, quando il capofamiglia vive tutte le frustrazioni del sentirsi inadeguato ed impotente rispetto al ruolo assegnato a cui non riesce a far fronte.
Conclude con una frase di apprezzamento e di simpatia nei nostri confronti e del nostro Paese: “E’ molto significativa la vostra visita in Kurdistan. Per noi kurdi, l’Italia è molto importante: è il primo Paese dove si è rifugiato Abdullah Ocalan”.
In occasione della visita alla famiglia dell’ex sindaca di Bostanici, Gulcihan Simsek, il giornale filokurdo Gunluk ha pubblicato un articolo- intervista alla delegazione italiana, che riportiamo.
L’associazione MediAzione onlus (è l’altro nome dell’associazione Verso il Kurdistan che utilizziamo negli atti ufficiali in Turchia e in Kurdistan), che, arrivata a Van, dove ha tenuto vari incontri in città con associazioni e sindaci, ieri ha visitato la famiglia di Gulcihan Simsek, l’ex sindaca di Bostanici, arrestata nel quadro delle operazioni contro il Dtp.
La delegazione italiana, formata da sette persone, che, partita da Diyarbakir, è andata a Siirt e Hasankeyf e poi andrà a Sirnak, Hakkari, Nusaybin, Gaziantep e ad Adana, ha visitato la famiglia di Gulcihan Simsek, ex sindaca di Bostanici, che è stata arrestata e internata in un carcere di tipo E a Diyarbakir, nel quadro delle operazioni contro il Dtp, che hanno avuto inizio il 14 aprile.
Antonio Olivieri, che è il dirigente dell’associazione MediAzione, ha detto: “Noi ascoltiamo i problemi dei kurdi nei luoghi dove andiamo”.
Ha continuato dicendo che loro incontrano i sindaci del Dtp, i quali li informano dei problemi esistenti nell’area e che sono a fianco delle municipalità del Dtp; incontrano anche associazioni della società civile, con le quali costruiscono progetti di cooperazione.
Olivieri ha spiegato che hanno contribuito a fare il progetto dell’acquedotto di Bostanici quando Gulcihan era sindaca, ed hanno detto che loro tengono informata l’opinione pubblica italiana dei problemi dei kurdi nella regione.
Per la soluzione della questione kurda, Olivieri ha fatto queste brevi valutazioni: “In Turchia, c’è al potere una casta militare. Se il governo muove qualche passo in direzione della pace, da questa viene impedita. Davanti ad una situazione di questo genere, il governo opta per la repressione dei membri del Dtp e di tutte le altre forze democratiche e per la pace”.
Al termine, Olivieri ha detto che anche il Parlamento europeo critica i metodi di oppressione contro i kurdi.
Il padre di Gulcihan, Faid Simsek, ha detto che questo tipo di oppressione è comunque destinato a finire.
29 luglio 2009 – incontro con il nuovo sindaco di Van, Bekir Kaya
Bekir Kaya è stato un avvocato del Collegio di difesa di Ocalan: è stato, perché dal 2005, il governo turco ha vietato a Kaya di raggiungere Imrali, l’isola – carcere dov’è rinchiuso il presidente del Pkk. Infatti, nel 2005, il governo ha emanato una legge che dice che gli avvocati che hanno a carico un procedimento similare a quello dei loro clienti, devono rinunciare al mandato di assistenza
degli stessi. Ora, in più, vige una legge che proibisce ai sindaci di esercitare l’attività di avvocatura per cinque anni.
Ci dice che negli ultimi 15 anni la popolazione di Van è cresciuta di quattro volte, senza infrastrutture, con servizi sociali insufficienti; la disoccupazione è molto alta; i problemi sanitari attanagliano i più poveri; c’è una qualità molto bassa dell’istruzione scolastica (la municipalità di Van occupa uno degli ultimi posti in classifica, per l’esattezza il 76° posto, su 81); c’è infine, il problema legato al risanamento del lago.
Dopo le elezioni amministrative del 29 marzo, i militari hanno smantellato parecchi check point; questo fa presupporre che ci possono essere buone speranze per il futuro, anche se continuano a rimanere in carcere molti dirigenti del DTP, in carcerazione preventiva. La durata di questa carcerazione dipende dal numero dei capi d’imputazione; hanno tempo un anno per preparare gli atti d’accusa, con un limite massimo di due anni, che però potrebbe essere prorogato a tre!
30 luglio 2009 – contributo di 350 euro consegnato a Sevket per la liberazione di una carcerata
Prima della partenza per Hakkari, tra i membri della delegazione, è stato raccolto un contributo di 350 euro per pagare la cauzione liberatoria per una ragazza del DTP di Van, Elef, condannata ad un anno di carcere; questa somma, aggiunta a quella di 400 Ytl raccolte dalle donne del partito, permette di raggiungere la cifra di 1.100 Ytl, cifra necessaria a pagare la sua cauzione per farla uscire dal carcere.
Il denaro è stato consegnato al nostro autista, Sevket.
Da Van ad Hakkari sono oltre duecento chilometri, attraverso una regione dominata da verdi pascoli montani e straordinarie vallate, ma irta di posti di blocco militari.
Qui sono schierati 250 mila militari turchi, pronti ad entrare in Iraq con il pretesto di fermare la guerriglia del PKK, in realtà per bloccare sul nascere l’esperienza di un futuro stato kurdo e allungare le mani sul petrolio di Kirkuk e Mosul.
Hakkari, l’antica Merivan, oggi è una città di circa 70 mila abitanti, molti profughi di guerra, poca agricoltura e pastorizia, ancor meno commercio, eccezion fatta per i celebri tappeti Kilim che qui hanno una tradizione secolare.
Ad Hakkari, città di frontiera, la repressione è durissima: qui, i giovani entrano ed escono dal carcere, spesso senza accuse specifiche; il 23 aprile di quest’anno, nel corso di una manifestazione di protesta, vi sono stati otto feriti gravi, tra cui un ragazzino di 14 anni picchiato a morte dalla polizia e tuttora in coma.
La municipalità di Hakkari ci ha proposto un interessante progetto per la realizzazione di un mercato coperto, per dare lavoro e riparo ai numerosi profughi che sopravvivono trainando i loro carretti da ambulanti con misere cose, esposti alle intemperie per parecchi mesi all’anno.
30 luglio 2009 – incontro con il sindaco della città di Hakkari, Dr. Fadil Bedirhanoglu
Il dottor Fadil Bedihanoglu è docente di teologia all’Università di Urfa, prestato ad Hakkari per svolgere l’attività di sindaco, dopo la sua elezione.
Ci accoglie, esordendo con queste parole: “ Noi siamo tutti fratelli. Non importa che alcuni di noi siano francesi, altri italiani o kurdi, siamo tutti fratelli, siamo tutti membri della stessa famiglia umana.
Non è possibile che venga a mancare a ciascuno di noi, la sensibilità e la solidarietà verso gli altri, verso il prossimo.
Il vostro comportamento è molto umano e dimostra come l’unione tra le genti sia una cosa di straordinario valore.
Con il vostro impegno e il vostro interesse, date una buona lezione all’umanità.
Tutti devono essere sensibili alle sofferenze e alle gioie degli altri”.
Continua dicendo: “In molti Paesi, l’umanità non conosce ancora i propri valori.
Nel xxi° secolo, ci sono ancora Paesi e nazioni che negano i diritti dell’uomo, e, con interventi autoritari e militareschi, negano il futuro ai loro popoli. Uno di questi popoli è quello kurdo.
Mi spiego con un esempio preso a prestito dalla mia esperienza di vita: quando sono andato per la prima volta a scuola, mi sono trovato in classe con 50 compagni, non uno che sapesse una parola di turco, e un insegnante che, al contrario, non sapeva pronunciare una sola parola di kurdo!
Noi pensiamo che tutte le genti del mondo siano fratelli e sorelle; per questo, devono vivere come fratelli e sorelle.
Nessuno puo’ determinare, prima della sua nascita, la propria destinazione.
Hakkari è nelle montagne e le montagne sono in Hakkari.
Hakkari è una città che ha rapporti molto stretti con le montagne.
Per queste caratteristiche naturali ha molti problemi. Un antico proverbio kurdo dice che, qui in montagna, per avanzare di cinque metri, dobbiamo percorrere dieci metri di strada!
Noi non abbiamo grandi possibilità.
Abbiamo un’unica fortuna, quella del sostegno del nostro popolo.
Siamo stati eletti con l’80% dei voti; lavoriamo insieme al nostro popolo, che partecipa, dal basso, al lavoro della municipalità.
Abbiamo possibilità limitate; non possiamo rispondere a tutte le domande dei nostri concittadini!
La Turchia vuole entrare nell’Unione Europea, ma Hakkari non ha infrastrutture, né fognature, ha molti problemi ambientali, un numero di profughi dai villaggi delle montagne molto alto (20 anni fa, la popolazione della città era di 20 mila abitanti; oggi, dopo l’arrivo dei profughi, tocca i 70 mila; prima la città aveva solo tre quartieri, oggi, i quartieri sono ben 15!).
Tutto questo ha creato enormi problemi alla municipalità: le fogne e l’acquedotto erano stati costruiti per una popolazione di 20 mila abitanti, non rispondono più alle esigenze e ai bisogni attuali; i contadini si sono portati dietro la cultura del villaggio ed hanno trasformato la città in un grande villaggio.
Tutto ciò in totale assenza di aiuti dallo Stato.”
Al termine, il sindaco conclude con un commiato che riassume bene lo stato dei “nuovi” sindaci del DTP: “Noi siamo obbligati a farcela; ce la faremo!”
Prima di partire, la delegazione consegna la prima rata di 10 mila euro, raccolti dall’associazione “Verso il Kurdistan” – per il progetto del mercato coperto, a favore dei profughi della città (la somma complessiva del costo dell’intero progetto ammonta a 60 mila euro).
30 luglio 2009 – incontro con IHD (associazione dei diritti umani) di Hakkari
Incontriamo due dirigenti dell’associazione.
Ci dicono che l’area intorno ad Hakkari è
molto fragile: da trent’anni, in questa zona, ci sono scontri armati molto duri tra esercito e guerriglia.
“Il nostro compito – continuano i dirigenti dell’Ihd – è quello di aiutare la gente di questa città a conoscere e a far rispettare i propri diritti; li assistiamo ogni giorno, nelle case, nelle scuole, nei tribunali, ovunque si presenti la necessità.
Quando Erdogan, il presidente del consiglio, è arrivato qui per il suo tour elettorale, ha incontrato grandi proteste. E’ sceso in elicottero all’interno di una caserma, ha tagliato un nastro per l’inaugurazione di un ospedale ed è scappato via!
Negli scontri che sono avvenuti con la polizia, ci sono stati molti feriti, di cui uno particolarmente grave.
Prima delle elezioni, il partito di Erdogan, l’Akp, ha distribuito pacchi dono per ingraziarsi la popolazione: generi alimentari, vestiario, elettrodomestici… ma le politiche del governo restano antipopolari, sono fatte di repressione, violenza, accompagnate da piccole regalie… e la gente ha capito tutto questo.
Comunque, la vittoria elettorale kurda del 29 marzo ha iniziato a dare i suoi frutti: il governo ora parla di dare soluzione alla questione kurda. E questo accende un poco di speranza in tutti noi.
Durante gli anni ’90, dopo la partenza delle delegazioni straniere, scattava la repressione nei confronti di chi restava; oggi, non è più così.
Anzi, arrivano le prime confessioni e denunce.
A Semdinli, il 18 luglio 2009, un militare di leva che aveva prestato servizio in città nel 1994, ha confessato, che, all’interno della sua caserma, sono stati seppelliti nottetempo, 12 contadini, in una fossa comune.
L’Ihd di Hakkari ha contattato i contadini della zona che hanno confermato il fatto, ha successivamente ottenuto l’autorizzazione ad intervenire e, proprio nel luogo indicato dal militare, ha rinvenuto ossa umane e brandelli di vestiti…
C’è anche un’altra confessione: un ex guardiano di villaggio ha dichiarato di aver seppellito in una fossa comune, ben 98 corpi di guerriglieri uccisi…”
Purtroppo, in questi giorni sono riprese le
esecuzioni extragiudiziarie.
Il 25 luglio di quest’anno, sono stati uccisi, due membri del Dtp di Baythussebap: assassinati in pieno giorno, sono stati trovati seminascosti in un fosso, i corpi seppelliti sotto pietre e sassi.
Da Hakkari, si sale, attraverso una stupenda Arcadia montana, verso Sirnak, ai piedi del monte Cudi, dove la nostra associazione ha sostenuto, insieme alla municipalità, il progetto di un centro sanitario per le donne e i bambini, in una realtà caratterizzata da una situazione sanitaria disastrosa, unita a povertà diffusa e profonda, dominata da una presenza militare pervasiva e soffocante.
31 luglio 2009 – percorrendo la strada che collega Hakkari a Sirnak, 190 chilometri.
Si percorre un’unica strada che corre a lato del fiume Zap, tra immense montagne e profonde gole, villaggi arroccati dove manca tutto e greggi sparsi sui pendii, una strada disseminata di posti di blocco e di casematte dell’esercito.
Almeno una decina di check point dell’esercito, una strada che si può percorrere in tre ore, ma che, in realtà, richiede un tempo non inferiore a 7 – 8 ore.
Ad ogni posto di blocco, un controllo minuzioso dei documenti e dei bagagli.
Di sera, stremati, arriviamo, finalmente a Sirnak.
31 luglio 2009 – incontro con il nuovo sindaco di Sirnak, Ramazan Uysal
“Gli uomini d’affari – dice il sindaco, accogliendoci nella sala consiliare del Comune – non vogliono fare investimenti qui da noi perché la situazione non è sicura.
Giovani, studenti, laureati non trovano lavoro e devono migrare.
Le esecuzioni extragiudiziarie continuano: come voi saprete, il 25 luglio hanno assassinato due dirigenti del Dtp a Baytussebap.
Le foreste che avete visto carbonizzate, durante il vostro viaggio, sono state bruciate dall’esercito.
Durante il festival della cultura kurda di Baytussebap, che si è tenuto il 24, 25 e 26 luglio, i militari, a scopo intimidatorio, hanno pure sparato per aria, sopra le teste delle persone che lì erano radunate.
Questa è la situazione che ci troviamo ad affrontare in questa zona.
Noi stiamo continuando il progetto che abbiamo realizzato con voi; adesso, abbiamo acquistato anche un’ambulanza ed un carro funebre, mezzi di cui la municipalità era sprovvista.
Mediamente, si rivolge al centro un numero di 25 – 30 persone.
Vogliamo anche sviluppare l’ambulatorio analisi, gli ultrasuoni e l’elettrocardiogramma.
Ci serve acquistare queste macchine. In Turchia, il costo si aggirerebbe intorno ai 17 mila euro.
Chiediamo a voi se potete aiutarci a sviluppare questo progetto”.
Come delegazione, abbiamo detto che ce ne saremmo fatti carico nei limiti del possibile; nel contempo, abbiamo comunicato che la campagna Arance di Natale ha prodotto un risultato positivo di 6 mila e seicento euro che saranno inviati a Sirnak e che serviranno all’acquisto di medicinali gratuiti per le famiglie sprovviste della carta verde per l’assistenza sanitaria.
Proseguendo, si arriva a Cizre, dove confluiscono i confini artificiali di Turchia, Siria ed Iraq, zona cara alla resistenza kurda, che vent’anni fa nacque proprio qui, nella regione montagnosa del Botan. A Cizre si può vedere la tomba di Noè e il mausoleo degli sfortunati amanti Mem u Zin, una sorta di Romeo e Giulietta che i kurdi raccontano in almeno tre versioni diverse.
Cizre è un luogo importante per la tradizione letteraria del popolo kurdo.
31 luglio 2009 – incontro con il Centro culturale “Mem u Zin”
Incontriamo un dirigente del Centro, Mehmet Edip Boz, in quanto la presidentessa, Eylem Ustun, è andata, con altri, a Dogubeyazit per il Festival della cultura kurda.
Rispondendo alle nostre domande, ci dice che la situazione non è cambiata, è sempre grave. Oggi, è stato arrestato un consigliere comunale di Cizre, Ihsan Kalkan, ad Adana; non si conoscono ancora le motivazioni.
Oltre alle due esecuzioni extragiudiziarie di Baytussebap, c’ è stata, il 27 luglio, un’altra esecuzione a Igdir: sconosciuti, hanno fatto scendere dal pulmino e freddato sul posto il guerrigliere dell’Hpg, Ali Cex Muhammed.
Chiediamo se la statua di Oharan Dogan è ancora ricoperta da un telo e sorvegliata da un militare 24 ore su 24. Ci dice che, adesso, non è più così.
Mentre la tomba dei due amanti, Mem u Zin, è stata completamente ristrutturata, con il contributo dell’Unione europea.
Il Centro – continua – si occupa di danza, teatro, musica e dell’arte degli antichi cantastorie (denbey).
31 luglio 2009 – incontro con il sindaco di Cizre, Aydin Budak
A Cizre, il Dtp ha ottenuto l’80% dei voti e il sindaco, Aydin Budak, è al secondo mandato (si tratta di uno dei pochi sindaci riconfermati, in quanto gli altri sono quasi tutti cambiati). In città si erano presentati candidati di tutti i partiti che hanno preso pochissimi consensi; solo l’Akp, il partito di governo, ha ottenuto il 17% dei voti.
“ La vostra sensibilità e amicizia – esordisce – è molto preziosa per noi, viene prima dei progetti.
Ogni progetto o passo che fate – piccolo o grande che sia, poco importa – è molto importante per i kurdi di questa zona.
Volevo che voi vi occupaste di due villaggi, Eludere e Uzun Gecit: hanno molti problemi essenziali (a Eludere non arriva l’acqua nelle case; a Uzun Gecit manca proprio tutto!).
Vi ricordate quando siamo andati a visitare l’ospedale e ci hanno cacciato, voi ed io?
Ebbene, un risultato c’è stato. Subito dopo la vostra partenza, gli ambulatori pubblici sono passati da 2 a 6 ed i medici, da 5 che erano, sono diventati 20!
Inoltre, e, per la prima volta, hanno effettuato pulizie di fondo, e terminato un ospedale con 150 posti letto.
Vuol dire che gli impegni di questo tipo producono frutti ed hanno ricadute a cascata.”
Al termine del breve colloquio, abbiamo incontrato la sindaca di Eludere, Sukran Sinkar, che ci ha illustrato il progetto di trasporto dell’acqua dalla sorgente fino alle case; ci siamo impegnati a ricercare i soldi (costa complessivamente 43 mila euro) per realizzarlo.
1 agosto 2009 – articolo sulla delegazione italiana apparso sul giornale filokurdo, Gunluk
“Questa terra è sotto occupazione (titolo)
La delegazione italiana che si occupa di solidarietà e diritti umani, formata da 7 persone, nel quadro delle visite organizzate in questa zona, ha incontrato il sindaco di Sirnak, Ramazan Uysal.
All’incontro il sindaco ha informato la delegazione italiana sullo stato dei diritti umani e sui problemi sanitari in zona.
Ramazan ha parlato degli interventi attuati come sindaco, ha parlato dell’attività del centro sanitario (realizzato dall’associazione Verso il Kurdistan insieme alla municipalità) ed ha detto che è loro intenzione allargare l’attività di detto centro per dare più servizi e prestazioni alla popolazione di Sirnak.
E la portavoce della delegazione italiana, Lucia Giusti, ha detto che, durante il viaggio da Hakkari a Sirnak, i soldati hanno fermato parecchie volte il pulmino e li hanno fatti attendere, a lungo, sotto il sole.
Giusti ha concluso che questa è una terra sotto occupazione!
Dal 2009, l’associazione Verso il Kurdistan ha aiutato con l’acquisto, fino a 5 mila euro di medicinali, la popolazione di Sirnak; per l’anno prossimo, il contributo a tal fine, realizzato con la campagna Arance di Natale, sarà pari a 6.600 euro,
1 agosto 2009 – visita alla tomba dell’ex deputato Ohran Dogan e alla statua eretta nel Parco della Pace, difronte al fiume Tigri
Abbiamo visitato la tomba restaurata di Ohran Dogan, l’ex deputato kurdo del disciolto partito Dep che ha scontato dieci anni di carcere insieme a Leyla Zana ed è morto di malasanità.
Uno scritto di Ohran Dogan, scolpito sulla tomba, dice:
“Non è facile raccontare della storia dei leoni e delle loro prede, le gazzelle, ma è una storia molto simile a quella degli autori delle esecuzioni extragiudiziarie e delle loro vittime.
In natura, la crudeltà dei leoni contro le fragili gazzelle è fin troppo chiara, evidente, cosi’ come gli uomini che commettono crimini efferati, non sono mai sconosciuti; loro sono tra di noi e vivono dentro di noi.
Qualche volta seguono le loro prede, come ombre, e, sulle loro tracce, compiono i loro assassinii; sono della stessa razza delle loro vittime, come i leoni assaltano e sbranano altri simili, le loro povere prede.
Ma coloro che provano rimorso e vergogna nel perseguire gli altri, sono diventati, al tempo stesso, testimoni e accusati… un passo ancora, ed anch’essi diventano vittime delle esecuzioni di quegli uomini che si muovono nell’ombre.
Con amicizia, Ohran Dogan”
Questi brevi versi stavano, invece, scolpiti ai piedi della statua di Ohran Dogan, eretta sulle rive del Tigri:
”Se non è possibile un giardino con un solo fiore, se non è possibile un’orchestra con un solo strumento, com’è possibile una Turchia ad una sola dimensione?”
Dopo Cizre, seguendo la strada che corre a lato del confine siriano, si giunge a Nusaybin, l’antica Nisibis romana, divisa, dalla città gemella Qamishli, in territorio siriano, da rotoli di filo spinato e postazioni militari. A Nusaybin, incontreremo l’associazione delle donne di Agenda 21, con le quali abbiamo realizzato il progetto della “lokanda” all’interno del centro culturale “Mitanni”.
1 agosto 2009 – incontro con le donne di Agenda 21
“Questa caffetteria è il simbolo della nostra lotta, della lotta delle donne kurde – ci dicono le giovani ragazze della cooperativa che gestisce il locale presso il centro culturale Mitanni – il servizio viene fatto parlando in kurdo: una sorta di rivoluzione sociale della donna!”
Il progetto della “locanda” di Nusaybin è stato finanziato dall’associazione Verso il Kurdistan, con il contributo di singoli e di altre associazioni, per un totale di 17 mila euro.
Attualmente, occupa otto ragazze a part-time che ricevono uno stipendio di 350 ytl al mese; sono state assunte tre nuove ragazze, al posto di altrettante dimissionarie, tutte provenienti da famiglie povere e con genitori martiri o incarcerati.
Agenda 21 ha pure affittato un pulmino per accompagnare a casa le ragazze, di sera, dopo la chiusura del locale.
Recentemente, nel locale, è stata installata una macchina per gelati, i cui proventi andranno, per il 50% a loro, e per l’altro 50% alla ditta che noleggia l’attrezzatura.
1 agosto 2009 – incontro con la sindaca di Nusaybin, Ayse Gokkan
Incontriamo, presso il Centro Culturale Mithanni, la sindaca di Nusaybin, Ayse Gokkan, eletta nella tornata elettorale amministrativa di marzo. Ci raggiunge al nostro tavolo, dopo aver parlato a lungo con il suo predecessore alla guida della cittadina che conta ufficialmente circa 88 mila abitanti, 100 mila effettivi, in seguito agli inurbamenti dovuti alla guerra e alla repressione. Ayse è stata eletta a marzo con l’83% delle preferenze (25 mila voti sui 30 mila espressi), in un contesto in cui si sono recati alle urne il 70% degli aventi diritto.
E’ una delle 14 donne che il Dtp (che ha conquistato in tutto 100 municipalità) ha fatto eleggere a marzo, alla massima carica amministrativa: basti pensare che sono solo 19 le donne sindaco in Turchia, mentre su 2 mila sindaci dell’Akp, solo 5 sono donne!
Prima di essere eletta, lavorava per il dipartimento femminile del Dtp. Spiega che il colpo di stato dell’80 aveva fatto tabula rasa di ogni forma di organizzazione autonoma delle donne. Poi, dopo il 2000, le donne sono riuscite a ricostituire una presenza femminile autonoma all’interno del Dtp, in ogni città.
Confessa di non aver mai vissuto a Nusaybin prima della sua elezione a sindaca, ma di esserci passata spesso, in qualità di dirigente femminile del partito.
Quando le chiediamo delle priorità che intende affrontare nella sua azione amministrativa, risponde che la priorità è la questione femminile.
Esiste, innanzitutto, un problema educativo. La maggior parte delle donne non va a scuola e non conosce il turco, il che impedisce loro l’accesso ai servizi e l’autonomia personale (ad esempio, non possono interloquire con un medico, se non con una mediazione maschile).
Le chiediamo se il suo intento di riconoscere priorità ai problemi delle donne sia condiviso dalla componente maschile del partito o se incontri resistenze. Lei risponde che questa linea fa parte della strategia del Dtp. Ancora non soddisfatti, la incalziamo: ma gli uomini del Dtp mandano a scuola le loro bambine? Ayse Gokkan non nega il persistere di un atteggiamento di chiusura da parte di molti uomini, anche militanti del Dtp, ma dice che queste resistenze sono vinte, almeno in parte, dalla pressione convergente delle donne e del partito stesso.
Ancora, dice che è in fase di organizzazione una sorta di consultorio diretto in particolare alle donne che si sono rifugiate a Nusaybin, scappando dai loro villaggi distrutti. In realtà, la struttura in fase di organizzazione ruota intorno ad esigenze un po’ diverse da quelle che trovano risposta nei nostri consultori: sostegno psicologico alle donne che hanno subito perdite, lutti e traumi nella guerra, creazione di cooperative che diano lavoro alle donne stesse…
Poi, c’è la grande questione della violenza contro le donne, violenza ad opera degli apparati dello Stato, ma anche violenza domestica. Recente, è il caso di una attivista per i diritti umani minacciata di stupro da uomini delle forze di sicurezza. Le otto deputate kurde hanno denunciato pubblicamente l’episodio e da qui, da questa denuncia, ha preso avvio una campagna contro la violenza alle donne che si è dispiegata anche a livello locale.
Quanto alla violenza domestica, esiste ora un po’ più di sensibilità, ma la società è ancora fortemente patriarcale.
Certo, la guerra non favorisce attenzione ai problemi delle donne, per cui il quadro che ne deriva è a macchia di leopardo. Nelle zone in cui è ancora forte il rombo della guerra, in cui ancora sono frequenti gli scontri armati, anche l’attenzione ai problemi delle donne è più debole, perché finisce inevitabilmente in secondo piano rispetto alle esigenze imposte dalla repressione. Dove la guerra appare più lontana, i problemi delle donne riescono ad imporsi nella loro drammaticità.
I “delitti d’onore” sono ancora una macchia nella società kurda, anche se Ayse lamenta come questa realtà sia sfruttata ad arte dalla macchina propagandistica turca, che ha tutto l’interesse a dipingere la società kurda come arcaica ed arretrata, dimenticando come lo stesso fenomeno sia diffuso anche nella Turchia occidentale: all’ovest, non si chiamano “delitti d’onore”, ma “delitti d’amore”! E questo fenomeno, radicato nella mentalità corrente, ha un preciso addentellato nella legislazione turca che prevede uno sconto di pena per i delitti d’onore. Anche su questo terreno va registrato un preciso impegno da parte delle parlamentari kurde che si battono perché sia cancellata la riduzione della pena.
La violenza domestica trova un suo alleato anche tra le forze dell’ordine, che tendono a rimandare a casa, dal marito, le donne che si rivolgono ai commissariati per denunciare le violenze coniugali. La denuncia delle donne deve essere infatti suffragata – fino a poco tempo fa, secondo la legislazione vigente – da testimonianze di altri familiari. Ayse dice di aver fatto una ricerca sull’argomento e di aver trovato una Convenzione internazionale, firmata anche dalla Turchia, che esclude la liceità di una norma siffatta. Ayse si è quindi rivolta all’Onu, denunciando l’incongruità della legislazione nazionale rispetto alle convenzioni internazionali e la Turchia è stata costretta ad adeguare la sua legislazione interna, anche se tale adeguamento non ha ancora avuto ricadute significative nella prassi quotidiana. Tanto che, recentemente, una donna ha vinto un ricorso alla Corte Europea per i diritti umani che, nella sua sentenza, ha condannato la Turchia per non aver protetto quella donna dalle violenze domestiche.
Se così stanno le cose, non c’è da stupirsi che molte donne kurde – diffidenti della giustizia istituzionale – si rivolgano al Dtp per avere giustizia contro i mariti violenti.Lì trovano il sostegno di altre donne, anche se non mancano tra i militanti del Dtp, sacche di indifferenza o peggio ancora di complicità maschile.
Comunque, qualcosa si sta muovendo, se un giudice del Mar Nero ha condannato un uomo che aveva usato violenza alla moglie, a girare per le vie della sua città, con un cartello appeso al collo, in cui si esprimeva vergogna per quanto aveva fatto! Anche se questo episodio citato da Ayse ci suggerisce una riflessione non rassicurante della riedizione della gogna medioevale e ci viene da pensare che non in questa direzione bisognerebbe muoversi. E numerosi sono i casi in cui al marito viene imposto un temporaneo allontanamento da casa, che però non risolve il problema, tanto che poi, spesso, la violenza ricomincia in maniera più feroce di prima. Comunque, tutto ciò fa pensare che la Turchia sia ora costretta, dalla pressione di donne come Ayse, a misurarsi con questa questione e stia cercando, anche se, in modo contraddittorio e ancora troppo timido, una sua strada per affrontare la questione della violenza domestica. Mentre la decapitazione del gruppo dirigente femminile nazionale del partito (sono state arrestate 23 dirigenti), all’indomani delle elezioni di marzo che hanno visto un fiorire di iniziative femminili, è letta da Ayse non solo come ritorsione contro il movimento nazionale kurdo, ma come un colpo di coda di un potere maschile arroccato.
Ayse non si sottrae al confronto sulle questioni di politica generale: rivendica il riconoscimento, da parte dello Stato, dei parlamentari kurdi in quanto kurdi; il diritto all’educazione nella lingua madre; il riconoscimento di Ocalan come interlocutore politico; l’amnistia generale. Constata, con soddisfazione, il rilievo che ha assunto, nella discussione pubblica, la road map di Ocalan. Mentre il movimento kurdo ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale fino al 1° settembre (poi prorogato), sempre più forte è la voce di coloro che lamentano come la Turchia abbia perso tantissimo in questi trent’anni di guerra. Forse anche questa consapevolezza può avvicinare la pace: questa è, almeno, la speranza di Ayse.
C’è tempo ancora per qualche considerazione personale.
Ayse ha 45 anni. Quando le facciamo i complimenti per il suo aspetto giovanile, dice che le donne che lottano non invecchiano. Ha dedicato gli ultimi 23 anni della sua vita alla lotta per i diritti delle donne e quando le chiediamo se è difficile conciliare l’impegno politico – ora il lavoro amministrativo – confessa di non avere una vita privata e di aver dedicato tutta se stessa alla lotta delle donne.
2 agosto 2009 – comizio di Emine Ayna, deputata del Dtp, in occasione della festa per l’inaugurazione del nuovo municipio di Nusaybin
“Ringrazio il sindaco che ha governato, in questi anni, la città, per tutto quello che ha fatto a Nusaybin. Mi auguro che questo spirito animi anche tutti gli altri sindaci della regione.
In questi giorni, tutti parlano di dare una soluzione alla questione kurda: noi aspettavamo che il governo dicesse qualcosa! Il governo, subito dopo le elezioni, ha arrestato molti dirigenti del nostro partito, e noi abbiamo detto: pazienza!
Dopo abbiamo parlato del diritto all’insegnamento in lingua kurda; il governo ha detto: questo è proibito. E noi abbiamo detto, ancora una volta: pazienza! E abbiamo aspettato.
La settimana scorsa, in occasione della riunione del nostro partito, abbiamo ricevuto la notizia della barbara uccisione di due guerriglieri ad Adana; i nostri dirigenti non hanno dormito per due giorni dopo aver visto i corpi torturati e, orrendamente, mutilati. In quest’occasione, i militari hanno fatto uso di armi proibite, armi chimiche. Dopo qualche giorno da questo fatto, abbiamo rinvenuto i corpi massacrati di due dirigenti del Dtp di Beytussebap e poi ancora a Igdir, dove le squadre speciali, dopo aver bloccato un autobus, hanno fatto scendere un dirigente del Dtp e l’hanno ucciso in strada, dicendo che si trattava di un militante del Pkk. Poteva anche esserlo, ma era disarmato, doveva eventualmente essere fermato e condotto in carcere, non doveva essere ucciso, anche se si fosse trattato veramente di un membro del Pkk.
Lo Stato ha abusato a lungo della nostra pazienza, adesso la pazienza è finita!
In questi giorni, il Ministro degli Interni ha parlato della questione kurda; noi abbiamo ascoltato con attenzione: li ha definiti terroristi.”
Emine ha proseguito chiedendo indirettamente al Ministro: “Ma chi sei tu? Come puoi chiamare terroristi i figli di un intero popolo? Fai attenzione a quello che dici: non puoi chiamare terroristi i figli del popolo kurdo: noi abbiamo perso 40 mila persone, 5 mila villaggi sono stati bombardati e distrutti, molte famiglie sono state costrette a migrare perché non c’erano più le condizioni per vivere in quelle case, in quei villaggi distrutti…
Il governo ha parlato di un piano a breve, medio e lungo termine; per quel loro piano a breve termine, noi abbiamo aspettato 6 mesi! Non ne è valsa la pena!
Se si vuole veramente indicare un piano a breve termine, si fermino subito le operazioni militari e vi diamo tempo fino alla scadenza della tregua.
Provate ad immaginare che le operazioni militari vengano realmente fermate. Tutti i cittadini di questo Paese vogliono veramente la fine della guerra, di questo non si può neppur discutere se perdurano le operazioni militari.
Se non ci volete come interlocutori, discutete almeno delle possibili soluzioni della questione kurda con gli intellettuali e gli scrittori del Paese.
E tutti gli intellettuali, anche coloro che sono distanti da noi, hanno detto che occorre fermare le operazioni militari.
Se un giorno voi annuncerete che le operazioni militari sono state fermate, quel giorno sarà un giorno di festa nelle case dei soldati e in quelle dei guerriglieri.
Ora lo Stato vorrebbe risolvere la questione kurda in modo del tutto unilaterale, senza sentire l’opinione del nostro leader, il signor Abdullah Ocalan; ma è lo stesso nostro popolo che dice che voi non potete risolvere la questione kurda senza riconoscerci come interlocutori e senza riconoscere come interlocutore il nostro leader.
Quando due famiglie kurde litigano e chiedono l’intervento del Dtp, noi interveniamo convocando le famiglie e tentando in questo modo di risolvere i loro problemi.
Ma come potete pensare di risolvere il problema di un popolo senza averlo come interlocutore?
Il governo ha anche detto che l’educazione nella lingua madre non si realizzerà mai; ma il governo deve sapere che noi non rinunceremo mai al diritto alla lingua madre.
Se il Pkk non volesse il diritto alla lingua madre, il popolo kurdo lotterà per la propria lingua, senza il Pkk!
Volete liquidare il Pkk, costringere all’espatrio i dirigenti di questo partito? Dovete sapere che, a partire da questo momento, il popolo kurdo non rinuncerà mai a lottare, con o senza il Pkk!
La lotta per la pace è difficile, ma oggi vediamo che l’opinione pubblica, non solo kurda, ma anche turca, è sensibile a questo problema. Anche i partiti più lontani dal nostro, vogliono la pace, anche gli intellettuali che sono contro il Pkk vogliono che questa guerra si fermi!
Durante questo processo di pacificazione, avverranno sabotaggi e provocazioni, come è già successo con le esecuzioni extragiudiziarie a Beytussebap e a Igdir.
Non dobbiamo stare in silenzio contro i sabotaggi alla pace, dobbiamo accompagnare i corpi dei nostri martiri ai funerali con migliaia e migliaia di persone.
Se ci saranno perquisizioni nella sede del Dtp di una città o arresti di militanti, dobbiamo subito mobilitarci e scendere in piazza numerosi.
E quando si celebra un processo importante, dobbiamo occupare il Palazzo di Giustizia.
Il 15 agosto, Apo presenterà la sua road map; molte personalità hanno già manifestato interesse per quest’iniziativa. Anche noi del Dtp, diciamo la nostra: vogliamo che il governo non definisca più terrorista il nostro leader, Abdullah Ocalan; vogliamo che vengano fermate, da subito, le operazioni militari; vogliamo che venga rispettata la volontà del popolo kurdo e che venga riconosciuto come interlocutore Abdullah Ocalan o il Dtp, l’uno o l’altro; vogliamo che venga cambiata la Costituzione risalente al colpo di stato militare del 1980; vogliamo che non si ponga come condizione per avviare eventuali negoziati, la consegna delle armi da parte della guerriglia.
Noi riteniamo che non sia il tempo appropriato per porre questa questione: prima si fermino le operazioni militari, poi, quando il negoziato sarà avviato e la prospettiva sarà più chiara, allora si potrà discutere della questione delle armi.
Il processo avviato è molto importante.
Chiediamo a tutti di partecipare alla Festa del 15 agosto ad Eruh e, successivamente, a Diyarbakir alla manifestazione per la pace del 1° settembre.
Noi kurdi, turchi, noi tutti dobbiamo partecipare a milioni a questa manifestazione perché tutti noi vogliamo la pace.
Per la pace, l’amicizia, la democrazia e l’eguaglianza tra i popoli.”
Uno scritto di Orhan Dogan pubblicato dalla rivista della municipalità di Nusaybin
“Cari e preziosi amici,
scusatemi se non sono stato in grado di far raggiungere la pace…
Le lacrime non hanno colore, ma il sangue sì, il sangue è rosso.
Sia il soldato che perde la vita, come tutti quelli che muoiono sulle montagne, questi sono tutti nostri fratelli.
Fermate, dunque, questa guerra, fermatela…
Sono pronto ad inchinarmi davanti a colui che è in grado di fermare lo scorrere del sangue…”
Ohran Dogan
Si arriva poi alla turrita Mardin, con la sua cittadella merlata, i suoi musei, il suo bazar, le sue terrazze che guardano l’assolata piana mesopotamica, un armonioso mosaico di popoli, di religioni e di culture che convivono da millenni.
Al centro della piana di 400 chilometri di terra fertile che congiungono da Ovest ad Est, il bacino del Tigri (Dicle) con quello dell’Eufrate (Ferat) - terreno del gigantesco sconvolgimento idrogeologico noto come progetto Gap, che con le sue 22 dighe e centrali idroelettriche, darà, entro 10 anni, alla Turchia, il rubinetto dell’oro bianco da drenare verso l’Anatolia ed Israele, a danno del mondo arabo a valle e dei kurdi, costretti a migrare - sorge la città di Urfa, l’antica Edessa, oggi Sanliurfa per le mappe, mitica patria di Abramo, con il suo famoso lago dei pesci sacri e le caratteristiche case ad alveare del vicino villaggio di Harran.
4 agosto 2009 – visita al villaggio di Harran
“Poi Terah prese Abram,suo figlio, e Lot, figlio di Haran, figlio cioè del suo figlio, e Sara sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Arrivarono fino al Harran e vi si stabilirono (Genesi 11,31)
Siamo ad Harran, a 45 chilometri da Urfa, citata nel libro della Genesi, dove avrebbe sostato, per alcuni anni, Abramo con la sua tribù, durante il tragitto da Ur, in Caldea, verso la terra di Canaan.
Difronte a noi, una piana arroventata che guarda al confine siriano, poco distante.
Ci siamo arrivati lungo una strada fiancheggiata da coltivazioni di piante di cotone e pistacchi, resa fertile a seguito dello sbarramento della grande diga Ataturk sul fiume Eufrate, che però ha modificato il clima della zona e costretto all’esodo forzato 200 mila kurdi, sottraendo acqua alla Siria e all’assetato Iraq.
Harran, conosciuta nell’antichità per il culto della dea lunare, Sin dei Sabi, la città era chiamata dai greci Karrai, dai romani Carrhae; fu possesso dei romani, in seguito degli arabi, dei numairidi, dei crociati, di Saladino e dei mongoli.
Harran, con le tipiche case ad alveare, costruzioni di fango e paglia simili ad altre antiche costruzioni del bacino del Mediterraneo, ha ospitato la più antica università del mondo: nel silenzio, ne guardiamo le rovine sotto il caldo del mattino, già torrido, rotto da qualche leggera folata di vento.
Lasciata Urfa, si arriva a Birecik, dove sorgeva il leggendario tempio del peccato e l’antica città romana di Zeugma, una Pompei mesopotamica, sparita a giugno del duemila nel bacino artificiale della diga Ataturk che determinò l’esodo di duecento mila kurdi e la sommersione di numerosi siti archeologici.
Proseguendo verso sud, si scende a Gaziantep, la zona da dove proviene buona parte dell’emigrazione kurda alessandrina, ma anche sede di uno dei più famosi musei archeologici della Turchia.
Si arriva nella città di Adana, dove, recentemente un tribunale ha condannato a pene detentive che raggiungono i 186 anni, 6 mesi e 10 giorni di carcere, 24 bambini, rei di aver partecipato a manifestazioni di protesta, facendo così “propaganda per un’organizzazione terrorista”!
5 agosto 2009 – incontro con l’Associazione delle libertà di Adana (Adana Ozgurlukler Dernegi)
Incontriamo i dirigenti dell’associazione nella loro sede di Adana.
Ci dicono che ieri c’è stata in città una grande manifestazione con tutti i gruppi della sinistra e i kurdi, per Guler Zere, una detenuta condannata all’ergastolo e ammalata di cancro, che il governo, testardamente, si rifiuta di rimettere in libertà.
Guler Zere, 39 anni, era una guerrigliera del DHKC-P, una formazione della sinistra messa fuorilegge dallo Stato, che operava sulle montagne intorno a Dersim.
Arrestata, è stata condannata all’ergastolo ed è in carcere da 14 anni.
“Aveva un rigonfiamento ad un dente – ci dicono - e il dentista del carcere le ha diagnosticato un ascesso, per cui le ha prescritto un’aspirina e degli antibiotici. Prima di arrivare dal dentista, ci sono voluti sei mesi di richieste e di insistenze, in quanto la direzione del carcere non accordava l’autorizzazione!
In seguito, visto che il gonfiore permaneva, Guler ha chiesto di essere portata in ospedale. Anche qui, l’attesa è stata lunga, la direzione del carcere ha accampato molte scuse: non c’era il furgone disponibile, non si trovavano posti liberi… Alla fine, quando è arrivata in ospedale, le hanno dia-
gnosticato un tumore!
Il procuratore ha autorizzato il padre ad incontrarla per quindici minuti a settimana e, solo recentemente, ha ottenuto la possibilità di essere assistita, durante la degenza, da un’amica.
Non mangia e ha una voce molto flebile.
I medici si sono accorti di un secondo tumore: oltre a quello in bocca, ne ha un altro in gola.
Guler Zere oggi è ricoverata in un ospedale di Adana, in condizioni igieniche e sanitarie assolutamente inadeguate, piantonata 24 ore su 24, in una stanza che si trova nei pressi della camera morturaria…
A suo sostegno, c’è in atto una grande mobilitazione delle forze democratiche in Turchia: ieri ad Ankara, e prima ancora ad Istanbul… Il padre di Guler ha incontrato due deputati del Dtp e un deputato del Chp, insieme al presidente della commissione dei diritti umani del Parlamento turco, per perorare la causa della figlia morente in carcere.
Il medico che l’ha in cura e pure quello del carcere hanno detto che non poteva restare in ospedale in quelle condizioni, hanno chiesto che fosse lasciata libera, ma il procuratore ha preteso il parere dell’Istituto di Medicina Legale di Istanbul (14 ore di viaggio d’andata e altrettante di ritorno) e, con una visita che si è conclusa in cinque minuti, è stata decretata la continuazione della sua carcerazione.
In queste condizioni, Guler Zere è destinata a fare la fine di tanti detenuti lasciati morire in carcere, come Ismet Ablak, un detenuto del Pkk, morto recentemente di tumore, lasciato in carcere senza cure…”
5 agosto 2009 – incontro con il procuratore di Adana, Hakan Uyar e conferenza stampa
In giornata, abbiamo chiesto un incontro al procuratore di Adana, Hakan Uyar, il quale ci ha ricevuto nel suo ufficio; durante il colloquio, abbiamo chiesto di poter vedere in ospedale Guler Zere, richiesta che, alla fine, è stata respinta.
In un primo momento, il procuratore si è trincerato dietro gli articoli del regolamento carcerario, i quali prevedono una procedura lunga e farraginosa per concedere l’autorizzazione a visitare detenuti accusati di “terrorismo”; successivamente, a fronte della nostra insistenza, ha dimostrato una maggior flessibilità, salvo poi chiudere repentinamente ogni possibilità di accordo, dopo la telefonata fatta alla Direzione nazionale delle carceri, che ha opposto un netto rifiuto.
Ha concluso l’incontro rassicurandoci sul fatto che non ci sarebbe nulla da temere per le condizioni
di Guler Zere, in quanto si troverebbe in una stanza d’ospedale asettica, curata ed assistita dal personale; la sua camera non si troverebbe nei pressi dell’obitorio, come c’era stato precedentemente detto; come prova, ci ha mostrato una foto di Guler Zere, insieme al padre, in piedi, accanto al letto e tranquilla…scattata il giorno prima (abbiamo poi scoperto trattarsi di una bugia plateale, in quanto il padre, il giorno prima, si trovava ad Ankara per parlare con dei deputati; in realtà, la foto era stata scattata ben ventitrè giorni prima!).
Dopo l’incontro con il procuratore, la delegazione si è recata davanti all’ospedale dov’era ricoverata Guler e dov’era stato allestito un presidio con le sue foto ed uno striscione che chiede la sua libertà; lì, si è tenuta una conferenza stampa di denuncia delle condizioni disumane di detenzione carceraria per Guler Zere, malata di cancro.
Questi i siti che hanno riportato la conferenza stampa: www.firatnews.nu; www.halkinsesi.tv.
5 agosto 2009 – incontro con IHD (Associazione dei diritti umani) di Adana sui minori in carcere
Sono presenti la presidentessa dell’Ihd, Beyhan Gunyeli, e il segretario, avv. Etem Acikalin.
Ci dicono che dal 2006, un’aggiunta all’articolo 9 della legge antiterrorismo, consente alle autorità turche di far comparire davanti alla Corte per crimini organizzati i minori accusati di terrorismo.
Secondo il giornale turco Hurriyet del 9 luglio, oltre mille sono stati i ragazzini tra i 14 e i 17 anni (il più piccolo ne ha 13!) posti sotto custodia negli ultimi due anni, per questa ragione.
La presidentessa dell’Ihd ci parla di 87 ragazzi per i quali il processo si è già concluso, dopo ben 14 mesi: sono stati condannati ad una pena totale di 400 anni di carcere (4 anni e 8 mesi a testa), dai 777 iniziali (8 anni e 6 mesi a testa), ridotti per minore età e buona condotta! L’unica colpa è stata quella di aver tirato dei sassi durante le manifestazioni o aver gridato slogan a favore del Pkk.
Per questo, sono stati accusati e condannati per propaganda e partecipazione ad organizzazione terroristica e per danneggiamenti a proprietà pubblica (per aver divelto dai marciapiedi le pietre che poi hanno lanciato, ovvero per aver rovesciato dei cassonetti dell’immondizia)
Per altri 225 ragazzi, il processo è ancora in corso.
Ma questi numeri si riferiscono solo alla città di Adana e non comprendono gli adolescenti incarcerati a Van, Diyarbakir, Istanbul, Izmir…
I processi sono spesso istruiti sulla base delle testimonianze dei poliziotti che li hanno fermati: per legge, tale testimonianza dovrebbe essere accompagnata da prove oggettive, ma in Turchia basta pronunciare la parola terrorismo per far dissolvere, come neve al sole, ogni garanzia legale.
Processati dagli stessi tribunali che giudicano gli adulti, per loro non ci si avvale della consulenza di esperti: psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, come dovrebbe avvenire quando in gioco ci sono dei minori.
Ma non solo le procedure giuridiche sono quelle riservate agli adulti. Anche il trattamento non prevede sconti.
Condotti dall’antiterrorismo nelle fasi iniziali dell’arresto, vengono tenuti in piedi per ore, maltrattati e spesso picchiati dai soldati e dalle guardie carcerarie. Naturalmente la Procura nega qualsiasi maltrattamento, prestando ciecamente fede alle dichiarazioni dei poliziotti, ignorando i referti dell’Istituto di Medicina Legale e le stesse testimonianze dei ragazzini, che sono numerose e univoche, ma che non possono essere state concordate perché si tratta di ragazzi arrestati e detenuti in luoghi diversi.
Di recente, tre ragazzi tra i 15 e i 16 anni, in carcere da 11 mesi, hanno effettuato uno sciopero della fame durato tre giorni, per chiedere migliori condizioni carcerarie (non è consentito loro l’accesso ad esami medici, ma possono avere solo dei farmaci!), la possibilità di leggere giornali in turco e in kurdo e l’esenzione dallo stare sull’attenti nel momento dell’appello.
Pare che queste richieste siano state accolte. Occorre dire “pare”, perché, oltre a genitori ed avvocati, solo le Commissioni per i diritti umani del Parlamento e della Prefettura competente hanno accesso alle carceri; l’accesso è negato alle ong, come l’Ihd.
In tutta questa vicenda, l’Ihd stigmatizza, con forza, alcuni elementi: la sproporzione tra azione commessa e pena comminata; il ricorso alla carcerazione dei minori come fatto ordinario; il mancato ricorso a tribunali per minori.
Anche le Nazioni Unite si sono accorte di questi abusi che rappresentano una grave violazione delle convenzioni internazionali per i diritti dell’infanzia, firmate anche dalla Turchia, e ne hanno chiesto conto al governo turco che avrà tempo fino all’8 ottobre per rispondere.
L’Unicef, invece, che già aveva posto interrogativi analoghi al governo turco, non ha ricevuto risposta.
Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ed Amnesty International sono intervenuti, per ora senza alcun risultato.
Si vola poi ad Istanbul, ultima tappa del nostro viaggio, per vedere, certo, Santa Sofia, la Moschea Blu e le altre meraviglie del Corno d’Oro, ma anche per partecipare, insieme agli avvocati dell’associazione dei diritti umani IHD, alla manifestazione di piazza Galatasaray delle Madri del Sabato che chiedono, in silenzio, di conoscere la sorte dei loro figli “scomparsi” nelle spire dello “stato profondo”…
5 agosto 2009 – incontro con Yuksel Genc, capo redattrice del giornale filokurdo “Gunluk”
La donna che ci troviamo di fronte è giovane e minuta, graziosa, i capelli raccolti a coda di cavallo. Yuksel Genc è una ex guerrigliera, fece parte della delegazione di guerriglieri che, su invito di Ocalan, si autoconsegnò nel 1999 alle autorità turche in segno di pace, e dovette, per questo, scontare cinque anni di carcere. Ora è caporedattrice del giornale “Gunluk” ed ha recentemente dato alle stampe un libro sulla sua esperienza di vita che stiamo traducendo in italiano per pubblicarlo qui da noi.
Quello attuale è un momento particolare per la Turchia – ci dice – così carico di attese e di speranze, ma anche di incognite e di inquietudini. Per la prima volta, si aprono degli spiragli per una soluzione pacifica della questione kurda. Anzi, non siamo mai stati così vicini alla pace!
Due fattori convergono in questa direzione: innanzitutto le pressioni dell’amministrazione Obama, espressione di gruppi di potere con interessi diversi da quelli dell’amministrazione Bush, e interessata ad attribuire ad una Turchia forte e pacificata, un ruolo chiave in un Medio Oriente in cui i venti di guerra dell’era Bush devono cessare di spirare.
Dall’altra parte, l’establishment si sta rassegnando all’idea di non riuscire a sconfiggere né militarmente, né politicamente, il Pkk.
Le elezioni amministrative del marzo di quest’anno hanno rappresentato un brusco risveglio per quanti speravano in una “debacle” del movimento kurdo: nonostante i forti investimenti del partito islamista Akp del premier Erdogan, che ha tentato di comprare i voti degli strati più poveri della popolazione del sud-est anatolico distribuendo regalie di ogni sorta, i kurdi hanno votato in maniera massiccia per il loro partito, il Dtp, raddoppiando il numero delle municipalità sotto amministrazione kurda, che sono ora diventate un centinaio.
I kurdi hanno capito che non stavano votando solo per il rinnovo delle amministrazioni locali, ma che stavano votando per affermare la loro identità, il loro diritto ad esistere.
Due le rivendicazioni chiave: a) diritto alla lingua madre; b)autonomia democratica, intesa come autonomia delle amministrazioni locali, aperte alla partecipazione democratica di tutti, senza distinzioni di etnia, credo religioso, cultura…
Spietata è stata la reazione del regime, che ha fatto arrestare in tutto il Paese, oltre 400 dirigenti e militanti del Dtp, tra cui 23 donne; in pratica, è stato decapitato il gruppo dirigente!
Non solo, ma per ben due volte in un solo mese, è stato chiuso il giornale Gunluk e sono stati aperti numerosi processi contro giornalisti e redattori, compreso il processo contro di lei, addirittura accusata di propaganda sovversiva, per un’intervista concessa dall’avvocato di Nelson Mandela, intervista in cui ci si chiedeva se le condizioni di detenzione di Ocalan potevano essere paragonabili a quelle di Mandela …
Ciò nonostante, la pacificazione della Turchia passa da una soluzione non militare della questione kurda, e, quest’ultima, a sua volta, passa dal riconoscimento di interlocutori politici non di comodo tra i kurdi. L’opinione pubblica turca sta forse incominciando a capirlo.
Sui mezzi di comunicazione turchi e nell’opinione pubblica, si è aperto un dibattito fino a poco tempo fa impensabile: i giornalisti incalzano gli esponenti governativi chiedendo loro se intendono incontrare esponenti e parlamentari del Dtp. Il Ministro degli Interni e lo stesso premier Erdogan sono stati costretti sulla difensiva, distinguendo tra questione kurda e terrorismo (e, implicitamente, accusando di terrorismo il Dtp), ricordando i soldati turchi uccisi dal Pkk.
Ma il 5 agosto, Erdogan è stato costretto ad incontrare Ahmet Turk, presidente del Dtp.
Certo, ha detto di farlo in qualità di leader dell’Akp, non in qualità di capo del governo, ma intanto ha dovuto infrangere il tabù.
Grande merito di tutto ciò spetta al leader del Pkk, Abdullah Ocalan, che dal suo totale isolamento nell’isola – carcere di Imrali in cui è detenuto dal 1999, è riuscito ad incunearsi nella nuova dinamica internazionale, preannunciando, per il 15 agosto, una road map, una sua proposta di soluzione della questione kurda, sollevando il dibattito nel Paese e mettendo in difficoltà il governo.
Il Pkk ha fatto proprio l’annuncio di Ocalan dichiarando un cessate il fuoco unilaterale fino al 20 settembre; un cessate il fuoco che non potrà essere rinnovato se non tramite accordi bilaterali.
Non è infatti possibile la riedizione dei cessate il fuoco unilaterali che sono costati la vita nel 1999 a 500 giovani guerriglieri, perché mai rispettati dalle forze armate turche e che ha anche fatto arrestare e incarcerare le due delegazioni – una proveniente dalle montagne e un’altra dall’Europa – che si erano autoconsegnati in segno di pace (l’ultima donna ancora in carcere, facente parte della delegazione, è stata scarcerata proprio il 5 agosto, dopo 10 anni di carcere).
Nessun dirigente kurdo, per quanto autorevole, può più chiedere sacrifici come questo al proprio popolo. Quegli errori non si ripeteranno più!
Intanto, la società civile kurda, sull’onda dell’annuncio di Ocalan, sta dispiegando una vera e propria offensiva diplomatica dal basso: si susseguono gli incontri tra intellettuali kurdi e turchi; le donne kurde sono entrate in contatto con le donne turche ed, insieme, stanno organizzando una veglia di pace, una sorta di interposizione tra i soldati turchi ed i guerriglieri a Bercala, nei pressi di Hakkari, sul confine tra Iraq e Turchia.
Le Madri della Pace hanno manifestato davanti alla sede dello Stato Maggiore dell’esercito per chiedere di fermare le operazioni militari. E, cosa straordinaria, è che singoli segmenti della società civile turca – una società fortemente impregnata di nazionalismo sciovinista – rispondono positivamente a questa apertura.
La Confindustria turca ha chiesto un incontro al Dtp, ben prima che Erdogan accettasse l’incontro del 5 agosto.
E un incontro è stato chiesto da un gruppo di ufficiali di rango inferiore dell’esercito turco. Potrebbe essere il sintomo di contraddizioni che si stanno aprendo anche all’interno dell’esercito, segnale da non sottovalutare, perché un gesto del genere richiede molto coraggio in un Paese in cui i rapporti sui diritti umani segnalano tantissime vittime di strani incidenti mortali, mai chiariti, tra i soldati di leva, caso strano, tutti giovani e tutti appartenenti a minoranze etniche o religiose, ovvero simpatizzanti della sinistra.
Certo, il cammino verso la pace non è ancora stato imboccato e sarebbe sbagliato farsi illusioni.
Probabilmente, Erdogan spera di poter disinnescare la miccia kurda con poche concessioni unilaterali, dall’alto, senza concordarle con interlocutori kurdi, concessioni relative a limitati diritti linguistici e culturali.
Intanto, sono tornate numerose le segnalazioni di violenze sessuali contro le donne arrestate – militanti del Dtp o attiviste per i diritti umani, violenze che si verificano soprattutto in caso di arresti isolati, non di gruppo, nella prima fase successiva all’arresto: un problema che si è riacutizzato, tanto che, ogni settimana, si susseguono, nelle varie città del Sud-est della Turchia, da Batman a Diyarbakir, ad Hakkari, manifestazioni di donne contro la violenza sessuale, ad opera delle forze di sicurezza.
Ma il motivo vero di inquietudine, secondo gli interlocutori kurdi, sta nel comportamento dell’esercito. L’esercito è già stato indebolito dal caso Ergenekon con un processo contro le alte sfere accusate di condurre una “guerra sporca” contro gli oppositori ed, in generale, di trame antidemocratiche. Una parte dell’opinione pubblica turca è diventata più consapevole del pericolo che l’esercito turco rappresenta per la democrazia, un po’ meno dei crimini commessi dai militari contro i kurdi.
Ma settori di quello che in Turchia chiamano lo “stato profondo”, cioè alcuni gangli di potere particolarmente oscuri e torbidi, hanno tutto l’interesse a bloccare sul nascere quel processo dinamico di discussione pubblica sulla questione kurda che si è innestato negli ultimi mesi. Pensiamo a settori dell’esercito, ma, soprattutto, dei partiti nazionalisti laici ed islamici – le cui responsabilità nella violazione dei diritti umani, a differenza di quelle dei militati, non sono ancora emerse con nettezza agli occhi dell’opinione pubblica – agli stessi “guardiani di villaggio”, corpo paramilitare che ha, tuttora, una consistenza numerica di 70 mila effettivi, agli squadroni della morte: tutti soggetti che potrebbero essere interessati a mettere in atto provocazioni, a dare vita ad una sorta di “strategia della tensione”, una strategia che può essere rimessa in auge da chi non si rassegna a perdere la rendita di potere rappresentata dalla guerra. Quegli stessi che, nell’arco di una sola settimana, hanno assassinato sei persone, tra cui un bambino di 10 anni, nipote del presidente del Dtp di Hakkari.
E’ solo uno spiraglio quello che si è aperto in queste settimane in Turchia, niente più che uno spiraglio, a 25 anni di distanza da quel 15 agosto 1984, data di inizio della rivolta armata del Pkk.
Se l’Europa fosse saggia e lungimirante, quello spiraglio farebbe di tutto per tenerlo aperto e magari allargarlo, senza perdere questa volta l’occasione – la seconda da quando Ocalan approdò in Europa nel 1998 – di giocare un ruolo attivo nella costruzione di una pace giusta in quell’area.
7 agosto 2009 – Istanbul, manifestazione per Guler Zere
Risaliamo la Istiklal Caddesi verso Taksim da cui alle 19.00 prenderà avvio la manifestazione unitaria che chiede la sospensione della pena dell’ergastolo per fini medici e la liberazione di Guler Zere. Arrivati all’altezza di piazza Galatasaray, cuore di tante manifestazioni politiche, ci imbattiamo in un sit in.
Molti giovani sono seduti a terra e scandiscono slogan; è l’Onda turca, sono studenti che protestano contro l’aumento delle tasse universitarie.Davanti ai giovani, sono sistemati dei microfoni, ma non c’è un comizio, i microfoni servono a due giovani che suonano la chitarra. Un terzo uomo, d’età più avanzata, intona “Dido”, il capolavoro di Kazim Koyuncu, cantautore del Mar Nero, morto giovanissimo di tumore, in seguito all’incidente di Chernobyl.
Tutti i giovani intonano in coro il ritornello, poi alcuni si alzano e incominciano a danzare tenendosi per mano. Altri loro compagni si uniscono via via alla catena.
La manifestazione è gioiosa, non arrabbiata o cupa. Solo una ragazza si alza dal sit in rivolgendosi agli astanti che si sono fermati intorno, rimproverandoli con rabbia di assistere passivamente, senza prendere posizione, e li invita a firmare una petizione di appoggio alla loro lotta.
Gli altri giovani annuiscono e qualcuno applaude.
Lei torna a prendere posto tra i suoi compagni, ancora alterata in viso, mentre i giovani con la chitarra intonano altre due canzoni. Altri ragazzi ballano formando un girotondo.
Veniamo raggiunti dal presidente dell’ Ihd di Adana che avevamo conosciuto alla riunione della sera prima e, insieme, decidiamo che è tempo di lasciare i giovani dell’Onda per raggiungere piazza Taksim.
Strada facendo, incontreremo dei cellulari della polizia diretti verso piazza Galatasaray, dove si concluderà la manifestazione per Guler Zere, e provenienti da Taksim.
Capiamo subito che il dispiegamento di forze sarà massiccio. A Taksim, già sono schierati altri reparti di polizia e abbiamo timore che tutto possa degenerare.
A Taksim, si era già radunata una piccola folla di manifestanti, che man mano s’ingrossa sempre di più.
Raggiunta una certa massa critica, i manifestanti si predispongono a dare inizio alla manifestazione: per alcuni minuti, gridano slogan, poi iniziano a sfilare lungo Istiklal Caddesi.
Alcuni di noi, sono in prima fila e reggono anche dei cartoncini plastificati con l’immagine della detenuta politica, Guler Zere.
All’inizio, sentiamo una tensione molto forte, poi, mentre il corteo sfila pacificamente, subentra uno stato d’animo più sereno.
L’età media dei manifestanti è molto bassa, ci sono molti giovani, persino adolescenti.
Pare che in Turchia non ci siano difficoltà nei rapporti con le giovani generazioni da parte dei gruppi organizzati e delle associazioni.
Non mancano, ovviamente, persone più adulte o anche anziani. Qualche mamma ha portato anche il suo bambino.
Dall’inizio del corteo, partono gli slogan che poi, quando si spengono, vengono ripresi da altri segmenti del corteo. A volte, gli slogan lasciano il posto al battito ritmico delle mani, sempre più accelerato, fino ad essere velocissimo. Dalle finestre dei sontuosi e raffinati edifici di Istiklal Caddesi si affacciano delle persone: molte applaudono al passaggio del corteo.
Forse la minoranza che sfila non è poi così isolata.
Si arriva infine a piazza Galatasaray e qui ha luogo il comizio finale.
Tra gli interventi – la manifestazione è stata indetta da un ampio cartello di forze e di associazioni – dal palco si annuncia la presenza di una delegazione italiana e si da la parola ad un rappresentante della delegazione che esprimerà un breve messaggio di solidarietà e di vigilanza internazionale sulla questione dei diritti umani, tradotto come sempre in turco dalla nostra impareggiabile interprete.
8 agosto 2009 – manifestazione delle Madri di Piazza Galatasaray
Da qualche mese, sono riprese al sabato le manifestazioni delle Madri di Piazza Galatasaray. Le Madri manifestano settimanalmente per chiedere verità e giustizia per i loro figli e nipoti scomparsi – kayplar – o vittime delle esecuzioni extragiudiziali.
L’appuntamento è per mezzogiorno a piazza Galatasaray.
Vediamo molte donne anziane arrivare in gruppo, vestite con gli abiti tradizionali e con il caratteristico fazzoletto bianco delle donne kurde, usato anche dalle Madri della Pace.
Ci sono anche degli uomini anziani con il vestito tipico dei contadini dell’Anatolia.
Uomini e donne giovani sono invece vestiti all’occidentale.
Ci sono anche numerosi bambini.
Alcune donne tolgono dalla borsa le foto incorniciate dei loro figli, le accarezzano con affetto e si predispongono a mostrarle.
Qualcuno tra gli organizzatori incomincia a distribuire tra i presenti, dei cartoncini plastificati con le foto degli scomparsi: ogni foto, un volto, un nome, una storia tragicamente interrotta.
Altri distribuiscono dei garofani rossi, ad esprimere l’affetto e la nostalgia per chi non c’è più.
Ben presto, tutti i presenti hanno in mano una foto ed un fiore.
Ad un segnale, ci si siede per terra per un sit-in silenzioso. Chi non ha trovato posto si assiepa intorno, sempre tenendo ben alta la foto di uno scomparso.
Il silenzio parla più di tanti slogan.
Alcune persone si alternano al microfono per narrare la storia di uno scomparso, quello cui è dedicata la manifestazione di quel giorno.
Così la memoria di quella vita diventa memoria collettiva, che appartiene a tutti.
Ad Hakkari, Van, Siirt, Sirnak, Cizre, Nusaybin, Diyarbakir e in altre città grandi e piccole, si sono insediati, a marzo di quest’anno, numerosi sindaci filokurdi. E’ il loro partito, il DTP, la rete del nuovo tessuto democratico e partecipativo, divenuto il primo partito delle dieci province kurde, in un territorio dove è calata pesantemente la spirale repressiva contro dirigenti e militanti.
Sono almeno 300 i membri del partito filokurdo tuttora in carcere, mentre gli arresti continuano, non soltanto nelle province kurde del Sud Est, ma anche ad Istanbul, Ankara e nelle altre metropoli turche.
Come ambasciatori di un’altra Europa possibile, vogliamo portare la nostra solidarietà a chi, ancora oggi, patisce prigione e tortura.
Saremo chiamati a guardare e ad incontrare l’altra faccia delle cartoline: i profughi, le prigioni, la tortura coraggiosamente testimoniata da medici ed avvocati, i bambini di strada – oltre 30 mila nella sola Diyarbakir – le associazioni a continuo rischio di chiusura, le donne che si battono contro vio-lenza e delitti d’onore…
Un viaggio nell’antica terra di Mesopotamia, attraverso un’umanità che vuol conoscere e farsi riconoscere, oltre il muro imposto del silenzio.
Lerzan, Guler, Gulcihan
Lerzan è un nome che nasce per caso: due genitori, due bussolotti con due nomi lanciati per aria, per tre volte, e sempre compare Lerzan. Significa tremore in italiano. Mai l’ho vista tremare, neanche di fronte ai militari con i mitra spianati, che a me qualche tremore invece lo procuravano.
Se il nome è la cosa, non vale per Lerzan!
Lerzan è una donna turca - a suo tempo giovane studentessa universitaria ribelle al colpo di stato militare del 1980, da sempre attivista per i diritti umani, laureata in letteratura francese, che, per nostra fortuna, parla anche l’italiano, così che ci è diventata indispensabile nei nostri viaggi di solidarietà e di conoscenza attraverso il dramma di quel popolo invisibile - ma sarebbe meglio dire che Lerzan è una cittadina del mondo. Che vuole cambiare, perché ingiusto. Come è ingiusta la Turchia, dove Lerzan è nata e vive. E dove si occupa delle condizioni dei detenuti e delle detenute, minorenni compresi: circa 120 mila, il doppio dei detenuti in Italia, pur avendo una popolazione di 70 mila abitanti.
Se la civiltà di un Paese si giudica anche per come si finisce e si sta in carcere, la Turchia è messa proprio male.
Si può finire in carcere perché si manifesta per rivendicare diritti e giustizia, perché si parla in kurdo, perché si pubblica un’intervista all’avvocato di Nelson Mandela… e poi aspettare tre anni per sapere i capi d’accusa, e poi, ancora, attendere i tempi del processo…
La Turchia, del resto, è il Paese che da dieci anni tiene segregato in un carcere su un’isola-lager, unico detenuto dell’isola sorvegliato giorno e notte da ben 1.500 guardie, il leader kurdo Abdullah Ocalan – che, per la sua vicenda, richiama appunto Nelson Mandela – un leader riconosciuto ed amato da un popolo di 20 milioni di kurdi, presenti nel Sud – est della Turchia, un quarto o poco meno dell’intera popolazione.
Ma le carceri turche “ospitano” anche Guler Zere, una donna ex guerrigliera di 39 anni, in carcere da 14, affetta da cancro, che non ha ricevuto né riceve ora cure adeguate.
Da molti mesi, Lerzan e molti con lei (l’abbiamo fatto anche noi), scendono in piazza in tutte le città della Turchia per chiedere la sospensione della pena e la sua liberazione.
Arroccati e sordi ad ogni richiesta di umanità, fino ad oggi, i responsabili annidati nelle istituzioni.
Così come sono sordi, anche politicamente, quando arrestono e mettono in carcere, circa 400 dirigenti del Dtp – il partito filokurdo con rappresentanza parlamentare, maggioritario nelle zone kurde – e, tra questi arrestati, anche tanti sindaci ed ex sindaci. Una tra questi è nostra amica, l’abbiamo ospitata l’anno scorso in Alessandria, una giovane donna, particolarmente impegnata sulla questione femminile: Gulcihan Simsek, poco più che trentenne, credo, alla sua prima esperienza di carcere.
L’accusa? Ci sono tre anni di tempo per formularla!
Tre donne, una libera che sa di esserlo provvisoriamente, perché il suo impegno, ancorché pacifico, potrebbe causarle, in ogni momento, l’arresto; le altre due in carcere, per il loro impegno contro le ingiustizie.
Come e cosa fare affinché siano libere di contribuire al processo di liberazione da una condizione che, in quella parte del mondo, colloca le donne dopo il maschio e la mucca?
Una testimonianza di Sabatino, di ritorno
dal viaggio in Kurdistan