venerdì 15 dicembre 2006

IN VIAGGIO CON LA SOLIDARIETA'

Testo di Giorgio d'Amato

Ogni storia che riguarda un uomo inizia con una donna che lo partorisce nel sangue. Ogni storia che riguarda un uomo finisce con una donna che spesso non è la stessa che lo ha partorito: gli medica le ferite, asciuga i suoi umori e il suo sudore sino ad abbassarne le palpebre, a chiuderne gli occhi. Ripone tra le sue mani un oggetto sacro a raccomandarne l’anima a qualche dio.
Questa storia inizia con una donna piccola, piccola come un piccolo uccello o forse un piccolo topo. Sì, un topo piccolo e veloce, estremamente veloce. Anche il suo nome è veloce, giusto il tempo di pronunciarlo che si perde nel vento. Lerzan.
Lerzan la incontriamo ad Istanbul, in aeroporto. Noi siamo in nove, veniamo da un po’ tutta l’Italia.
Andiamo in missione di pace. Lei sarà la nostra interprete: ci accompagnerà nel nostro viaggio che non sarà solo un viaggio ma l’ingresso in un dolore, di quelli muti, di quelli in cui la bocca che grida non ha più la forza di emettere un suono che forse c’è e non si ode perché la bocca è tappata da una mano che ne soffoca l’urlo. Ma questo lo scopriremo dopo.
Lerzan dice che ha già fatto i biglietti per il volo interno, che l’aereo nostro parte tra un’ora. Si va a Diyarbakir. Sulla cartina si trova a due passi dalla Siria. É la città più importante del Kurdistan turco, la sua capitale. Macché capitale e di quale stato, la capitale di uno stato che non c’è.
Noi ci andiamo e ci arriviamo di notte. Raggiungiamo il suo centro a bordo di tre taxi che sfrecciano alla faccia di tutte quelle norme che regolano il traffico in Italia. Sono dei pazzi quelli che guidano i taxi, a Diyarbakir te ne rendi conto davvero mentre accelerano nelle curve a gomito di certe strade sterrate.
Dormiremo nell’albergo che dà su una grande piazza. Ha una insegna blu a caratteri bianchi: Grand Guler Otel.
Quando siamo entrati, quelli che tra di noi erano più accorti, ci hanno riferito che alcuni tra gli avventori erano sbirri. I soliti sbirri che stanno addosso agli occidentali che si mettono in mezzo in una certa storia che vede i turchi a cacciare i kurdi come se questi fossero un formicaio. I turchi giocano a chiuderli i formicai, godono a vedere le lunghe file di gente che parte. Ho letto così. Siamo stanchi, è tardi. Meglio andare a dormire e pertanto ci salutiamo.
La camera non è un granchè. Era bella una volta forse, bella come era la città prima che i turchi ci mettessero addosso le loro mani. Ora è malandata, come la città. Mani, stavolta di ducotone, che si sovrappongono. Ma le ferite risaltano tutte all’occhio.
Alle otto del mattino siamo svegli e col muso fuori dalla hall. Davanti l’albergo sostano già almeno quindici bambini. Hanno il naso sporco ma vendono fazzolettini di carta. Noi glieli compriamo e a qualcuno togliamo il muco. Sorridono. Sono sporchi e malvestiti, e però sorridono. Ci chiedono i soldi e ci seguono. Sorridendo. Chissà, qualcuno gli ha detto che stamattina l’hotel é pieno di turisti, ma non dei soliti turchi che non mollano un soldo e che non si commuovono manco a simulare un attacco epilettico. Ci sono i turisti buoni, quelli che si commuovono se gli tiri la giacca e ti ci attacchi addosso. Funziona: gli molliamo tutti gli spicci che abbiamo. Li fotografiamo: un po’ perché le loro foto forse le mostreremo a tutti quei bambini delle nostre parti che non vogliono finire la fetta di carne, un po’ perché a loro piace. Perché in quegli istanti che precedono lo scatto il marciapiede diventa sipario e loro, da ultimi e bastonati sono dei protagonisti. Facciamo tante fotografie così che possano sorridere il più possibile. Sono bambini di strada, ci spiega Lerzan. Non vanno a scuola perché i loro genitori non sanno di che sopravvivere. Sono una risorsa.
Chissà se al mattino escono da casa da soli o qualcuno li accompagna.
Noi li salutiamo e loro alzano le manine, proprio come tutti i bambini del mondo quando salutano. Alzano le manine e mostrano i loro denti uno sì e uno. Sembrano tastiere di pianoforte. Sembrano bambini e lo sono. Ma non sono come quelli che vivono a casa mia e nelle case accanto. Sono destinati a morire prima, a morire male. A vivere male prima di potere morire.
Noi li salutiamo e andiamo via. Ci aspetta una associazione di disabili. E tanto thè. Che loro chiamano chai.
La loro insegna è gialla. Riporta una scritta: Dyb.Bed.Eng. Der. Ci sono varie persone ad aspettarci. Sono sulle stampelle, sulle sedie a rotelle. Sono felici: sanno che alcuni membri del nostro gruppo, Antonio e Lucia, hanno portato dei computer.
Ci accolgono in una stanza piccola. Ascolteremo quello che hanno da dirci e gli faremo delle domande. Ma prima di ogni cosa ci profumiamo le mani. Una bottiglia di acqua di zagara circola tra di noi. Ci sfreghiamo le mani e qualcuno se ne passa anche tra i capelli.
Adesso che siamo profumati possiamo parlare. Essere disabile a Diyarbakir non è facile. Essere disabile non è facile in generale, ma a Diyarbakir è peggio. Non ti aiuta nessuno, nemmeno il governo. Soprattutto se sei un kurdo.
Il nostro interlocutore è molto simpatico, è vestito bene. Sicuramente il suo vestito migliore, quello adatto per incontrare noi che veniamo da lontano. Noi no, siamo vestiti come sempre, alla meno peggio.
Ci dice che a Diyarbakir ci sono mediamente più disabili che in tutta la Turchia. La gente di Diyarbakir ha fatto parecchia strada, è povera. Secondo il censimento risalente alle ultime elezioni i disabili dovrebbero essere 27.240. Ma di molti non si sa niente: sono delle ombre. Mai censiti, mai usciti dalle loro tane. No, loro nel conteggio non ci sono. Ci dice che i disabili sono uomini e gli uomini sono importanti. Tutti gli uomini sono importanti e sono preziosi. Anche i disabili sono preziosi e hanno diritto ad una vita normale, ad andare a scuola, a vedere un medico per potere star meglio.
Ci dice ancora che i kurdi di Diyarbakir dal dottore non ci vogliono andare. Si spaventano. Hanno capito che con la scusa di vaccinarli gli iniettavano qualcosa nel corpo che faceva male. Lo hanno capito quando si sono accorti che non potevano avere più figli. Ora i kurdi non vanno dal dottore perché non sanno che farmaci gli verrebbero propinati.
I disabili però qualcosa possono averla dallo Stato. L’equivalente di duecento euro ogni tre mesi, praticamente quasi sessantasette euro per trenta giorni. In Turchia la soglia di povertà è stata stabilita a duecentocinquanta euro al mese.
Non conviene essere disabile, e se proprio dovesse capitarti, non conviene esserlo in Turchia. Ma soprattutto, in Turchia non conviene essere kurdi.
Lerzan sorride mentre traduce le parole del nostro interlocutore. E tra una pausa e un altra beve del the. Ne abbiamo bevuto almeno tre tazze ciascuno. Quello che loro chiamano chai e che servono in bicchieretti di vetro, col cucchiaino dentro e le zollettine di zucchero.
Staremmo un altro po’ a chiacchierare delle barriere architettoniche che mancano e delle pensioni di accompagnamento che non ci sono, ma Antonio ci dice che ci aspettano da qualche parte. É il rito delle fotografie. Se ci stringiamo ci rientriamo tutti, perfino la motoretta a tre ruote adattata per i privi di gambe e che giace senza motore. Un giorno l’aggiusteranno e la daranno a qualcuno, ma con sessantasette euro al mese, cosa metteranno dentro la tanga? Click, è fatta. Abbiamo sorriso, almeno per la foto.
Alcuni disabili hanno le auto. Ci accompagnano da qualche parte nel centro di Diyarbakir.
Inizia il nostro secondo incontro. Lerzan sorride di fronte ad una insegna: Baris Dergisi.
Il portone si apre e si sale al primo piano.
Dietro una porta di legno ci aspettano. Apre una donna giovane e ci fa accomodare in una stanza dove tante sedie sono accostate ai muri. Ci sediamo e restiamo in attesa. Arrivano, sono loro. Entrano in fila: sono tre, no sono quattro. Sono cinque, anzi sei, sette. Entrano e intanto percorrendo la sala in senso antiorario ci salutano tutti, stringono la mano agli uomini, abbracciano e baciano le donne come se le conoscessero da sempre.
Portano lunghe gonne ampie e un velo bianco. Sorridono. Le loro rughe si distendono in sguardi beati. Sembra che non abbiano mai sofferto. Sembrano statue, di quelle che adornano le nostre chiese.
Finito il giro si seggono da una parte e attendono. Finalmente le posso contare: sono nove.
Antonio ci spiega perché si sono associate. Loro non capiscono la lingua di Antonio ma sanno bene che Antonio sta parlando di loro e dei mille motivi che le spingono a lottare con i loro sorrisi eletti ad unica arma. Sono le Madri della Pace: della guerra non sanno che farsene.

Le Madri della pace non sembrano di questo di mondo. Vivono in una pausa estatica, i loro occhi sono larghi e le labbra distese.
Antonio ne descrive l’eroismo: lo scorso ventuno marzo hanno protestato in strada. Con i loro corpi hanno formato un cordone e bloccato il traffico. Protestavano per le condizioni di reclusione di Abduallah Ocalan. La polizia le ha caricate e arrestate per un mese e passa. Lerzan chiede chi di loro è stata in gattabuia. Parlottano sottovoce, sembrano confrontarsi sul significato della richiesta. Ci renderemo poi conto che non tutte parlano il turco e pertanto alcune traducono in lingua curda alle altre la domanda di Lerzan. Dopo qualche minuto due di loro fanno un segnale alzando una mano.
Restiamo in silenzio e intanto pensiamo o almeno sembriamo farlo. Eppure non c’è alcun senso di vuoto, di imbarazzo. Le contempliamo.
Antonio interrompe: dice che alcune hanno perso il marito, altre un figlio o anche più di uno. Alcune non hanno perso nessuno ma i loro familiari sono detenuti. O sulle montagne. Sulle montagne ad alimentare la guerriglia. Tra gli alberi, tra le rocce dell’Anatolia, nelle grotte scavate nel tufo. O chissaddove, dove sparano i turchi dai loro elicotteri.
Una di loro sembra capire la nostra lingua; pone subito la distanza tra sé e i guerriglieri: noi vogliamo solo la pace.
Mentre Antonio continua a descrivere il sostegno che viene dato alle famiglie delle Madri chiedendo chi di loro rientra nell’elenco delle adozioni, una serie di tavolini bassi viene accostato alle nostre gambe. Dopo qualche minuto entra una ragazza giovane, forse la figlia di una delle Madri. Ci distribuisce il chai, il solito the nei bicchieretti. Con le mani prendiamo delle zollette.
Antonio chiede alle Madri di parlare del loro passato, della loro storia.
Penso che la storia, qualunque essa sia, finisce per attraversare il corpo di una donna, trasformandolo da strumento di gioia in cassa di risonanza di grandi dolori. Il viso delle Madri sembra sublimare il dolore in sorriso. Non possiamo fare a meno di guardare i loro occhi.
Una delle Madri prende la parola. Parla in turco, lo riconosciamo dal suono a volte duro, a volte lamentoso e su cui spiccano parole dai suoni acuti. Graficamente immagino il suono di quella lingua come una spezzata o come il profilo delle Himalaya. Lerzan ascolta e prende appunti così da riferire quanto esposto. La sua matita scorre veloce sul quadernetto a righe. Quando la prima Madre interrompe il suo discorso, Lerzan si carica dei contenuti forti e ce li porge: la Madre ha un figlio guerrigliero. Prima di entrare tra i ribelli della montagna, era studente di storia all’Università di Istanbul.
La Madre ha un secondo figlio.
Questo la guerriglia pure a volerla fare, non potrebbe mai. Lerzan ci dice che un giorno uno studente suo amico, fu bruciato vivo dalle gendarmerie. Il secondo figlio della Madre si era recato al suo funerale. La polizia si recò pure al funerale dell’amico bruciato. Ci andò in massa, con camion e manette e neanche un fiore o un rimorso. Tutti gli astanti furono arrestati, per complicità con il partito dei guerriglieri, quello fondato da Ocalan e la cui sigla è PKK.
Il secondo figlio fu arrestato e torturato in malo modo, la Madre non ci dice come. Adesso è invalido, non può lavorare. Vaga inebetito tra due stanze di casa.
La polizia viene in visita di tanto in tanto, dice la Madre, talvolta di notte. Spera di trovare il figlio guerrigliero.
Chiediamo che tipo di tortura ha subito il figlio.
Senza scomporsi, come se la tortura non procuri dolore, inizia a parlare con voce distante. Lerzan ci traduce che viene praticata la tortura sistematica facendo uso di elettricità. Il secondo figlio della Madre ha subito il gancio di Palestina. Chiediamo di cosa si tratta.
Si tratta di legare le mani dietro le spalle e issarle in alto provocando la distorsione delle scapole.
La Madre continua a parlare non lasciando che Lerzan possa tradurre una ulteriore nostra domanda. Ci dice che il Pkk più volte ha dichiarato il Cessate il fuoco, e che quello in corso è il quinto negli ultimi dieci anni. Eppure lo Stato continua a sparare, a scaricare munizioni sul popolo kurdo, incurante se a morire sono adulti oppure bambini. Le Madri della Pace rifiutano la guerra e vogliono solo la coesistenza pacifica tra i kurdi e i turchi. Dicono di avere cercato un contatto con le madri dei soldati turchi uccisi. Tale iniziativa non ha avuto successo. Forse il dolore delle madri turche è molto più grande di quello di una madre kurda, ma questa è solo una nostra considerazione.
Lerzan continua la sua traduzione: le Madri vogliono che nessuna madre debba più piangere la morte di un figlio. Ma il capo dell’esercito lo ha detto chiaro, non si fermerà sino a che sterminerà tutti i guerriglieri kurdi, tutti, sino a che nessuno di essi respiri. Riferisce di una madre turca intervistata in televisione, una di quelle a cui è morto un figlio soldato: il figlio morto era l’unico figlio ma se ne avesse un altro e un altro ancora, li avrebbe sacrificati tutti contro il popolo kurdo.
Lerzan si interrompe. La Madre che sembra essere di tutte la più anziana, una delle due che fu arrestata nell’ultimo ventuno marzo, inizia a parlare. La sua voce è lenta, scandisce le parole. Lerzan corre veloce con la sua matita, attende una pausa per iniziare a parlare.
Quel giorno ci siamo messe per strada, nella via principale di Diyarbakir. Eravamo incatenate. Non è possibile che si possa recludere un uomo su di un isolotto, non consentirgli di parlare con i suoi avvocati per un tempo lungo pari a sei mesi. Non sapevamo nemmeno se Ocalan era ancora vivo.
Eravamo ventiquattro lì, giù per strada. Ci caricarono sopra i loro furgoni e ci portarono in un carcere muffito. Ci misero in due grandi celle, dieci in una e quattordici nell’altra. Insieme a noi c’erano altre recluse con pene di detenzione per reati comuni. Siamo rimaste lì dormendo a turno su pochi letti. Gli avvocati dell’Associazione per i diritti umani si interessarono di noi. Siamo state condannate ad un anno e mezzo di reclusione sebbene siamo uscite dopo quaranta giorni.
Durante la reclusione non potevamo lavarci, ci toglievano all’improvviso l’acqua calda durante la doccia. Avevamo la tosse e il raffreddore. Alcune di noi soffrivano di asma. Avremmo avuto bisogno di antibiotici e di altre medicine. C’era un dottore. Ci dava solo degli antidolorifici.
Nonostante tutto vogliamo la pace. Siamo vive, possiamo camminare e soprattutto possiamo parlare e dalle nostre labbra usciranno sempre poche parole, solo quelle che portano gioia.
Antonio si rivolge alla Madre dalle sopracciglia lunghe, chiede a Lerzan che riferisca la sua storia. Antonio mi dice che ha gli occhi molto belli. Lo penso anche io e penso pure di averla già vista.
Lerzan ci spiega che la Madre dagli occhi belli non parla il turco ma solo il kurdo. La ragazza che ci ha portato il the si offre di tradurre. La Madre è timida, risponde con poche parole, come se quello che è successo alla sua famiglia non meriti nemmeno di essere raccontato di fronte alla grandezza della tragedia del popolo kurdo.
La ascoltiamo esprimersi nella sua lingua e facciamo la differenza con quella turca. Il kurdo ha un suono diverso, dolce e arrotondato come le onde innocue di un piccolo lago. Lo ascoltiamo come rapiti mentre dagli occhi belli della madre si emana una luce che ci pervade. Sembra felice, forse la sua vita non è stata troppo dura, forse la tragedia l’ha solo sfiorata.
Lerzan appunta, scrive tante cose. Finalmente arriva il suo momento e con tono grave, inizia a parlare. Avremmo scommesso che il racconto potesse essere quasi lieto.
La Madre ha una figlia di ventisette anni. Era studentessa di Economia, sarebbe diventata una esperta di contabilità. E intanto che studiava, lavorava pure, all’interno dello studio di un famoso notaio. Poi fu arrestata, aveva aiutato dei guerriglieri, o almeno di questo era stata accusata. Restò in carcere un anno e passa e dopo che uscì, è andata in montagna. Sa che è viva ma non la vede da tempo.
Solo la sua unica figlia fa parte della Resistenza, gli altri figli ne stanno lontani. Uno di loro ha problemi psichici. Fu arrestato. Da quando lo hanno rilasciato non è più lo stesso. La Madre dice di non volere nemmeno immaginare cosa gli hanno fatto i soldati turchi.
Le chiediamo se c’è stato un momento, solo un momento in cui lei possa avere vissuto un momento felice. Lerzan traduce in lingua turca e poi la ragazza dal turco al kurdo. La Madre dagli occhi belli ci guarda e sorride.


Ci chiediamo se una donna kurda possa aver mai conosciuto la felicità. Se la vita riservi mai ad una donna kurda un momento tranquillo.
La Madre della pace con gli occhi belli ascolta la nostra domanda e annuisce scorrendo i nostri occhi. Sospira e poi inizia a parlare con la sua lingua morbida che scorre nell’aria come il nastro di seta di una acrobata leggera. Lerzan attende che la giovane ragazza kurda inizi la traduzione in turco e intanto aggiunge un altra zolletta al the caldo che ci hanno appena offerto. Quando la ragazza inizia a parlare Lerzan riprende la sua matita. La sua mano scorre veloce. Quanto a noi, noi pendiamo dalle sue labbra.
Lerzan ci riferisce che la Madre non sa cosa è la felicità e che la sua vita è stato un affanno tra sentieri costeggiati di pene. Nacque in un villaggio, vicino alle montagne, le verdi montagne del Kurdistan turco. Ricorda poco dell’infanzia se non che a quindici anni era già sposata, a venti aveva già tre figli e a venticinque era sfollata a Diyarbakir. Di quel villaggio non rimane più niente se non quattro pietre che implorano pietà. E un guardiano, posto lì come un cane ringhioso.
Antonio ci spiega che i guardiani del villaggio sono una trovata dei turchi che costringono alcuni kurdi a vendersi e obbedire se non vogliono la famiglia distrutta. Rimangono a vigilare che nessuno ritorni ad occupare le case vuote e i campi ormai inselvatichiti.
La Madre ricorda le fiamme alte e rosse che avvolgevano la sua casa mentre i soldati turchi ridevano e lei con pochi vestiti e qualche suppellettile guardava quanto era lunga la strada che avrebbe dovuto percorrere. Suo marito ancora camminava. Camminò ancora per quanto bastava ad accompagnare tutti in città. Poi ebbe un incidente. Trascorse tutti i rimanenti anni della sua vita disteso su un letto.
Non c’è stata felicità nella sua vita e neanche un attimo di serenità, perché spesso alla vita non si chiede di potere gioire ma solo di osservare l’avvicendarsi delle stagioni da una finestra senza avere necessariamente un fuoco che scoppietta in un camino.
Prima che Lerzan completi la storia della Madre con gli occhi belli, c’è già un’altra madre pronta a parlare. Fa un cenno perché Lerzan la ascolti e poi inizia la sua narrazione.
Ci parla del marito rapito a settantacinque anni e di cui non si sa più niente. Chissà dove è sepolto. Di tanto in tanto raccoglie un fiore e lo poggia dove la terra è più rossa. Questo le basta, non può chiedere di più.
Noi vorremmo ancora trascorrere del tempo ad ascoltare la storia di ognuno di loro ma Antonio ci fa capire che è ora di andare. Consegna delle buste ad una delle Madri, allega una lista di destinatari. La Madre ringrazia. Passiamo alla fase dei saluti e delle fotografie. Io mi perdo tra mille saluti e sorrisi espressivi. Una ragazza del nostro gruppo, Peppa, la vediamo spuntare con un velo bianco sulla testa legato alla maniera delle donne kurde. Si scatena un gran movimento: alcune delle madri spariscono dietro una porta per poi ricomparire ridendo con foulard colorati sui capelli. Il velo bianco è nelle loro mani e sarà il dono per le donne della nostra delegazione. Rossella, Chiara, Lucia adesso indossano anche loro il velo bianco. É l’ultimo gesto di una trasmissione d’intenti. Un’ultima fotografia suggella l’incontro.
Nella nostra lingua chiediamo qual’è il loro nome. Capiscono al volo nonostante ci siamo espressi in italiano.
Una si chiama Fatma, un altra Zinè e poi Anya e Ozlem.
Ci salutiamo e ci stringiamo ancora le mani. Chissà, ci rivedremo un giorno.
Scendiamo per strada. Sono passate già le due e i morsi della fame si fanno sentire. Compriamo qualcosa da mangiare: un piccolo forno vende delle ciambellette di pane ricoperte di semi di papavero e dei calzoncini al formaggio. Poco più in là un venditore di dolci e uno di semini, di pistacchi e di uva passa.
Sbrighiamoci, dice Antonio, ci stanno aspettando.
A passi veloci raggiungiamo un palazzo dall’intonaco scorticato. Le scale che ci guidano al primo piano sono fatiscenti. Tutto a Diyarbakir ha un aspetto dimesso, d’attesa. Tutto attende che arrivi il momento giusto per tinteggiare di nuovi colori. Leggiamo una tabella: Tuhad fed. Suoniamo al campanello.
Ci apre la porta una donna. Sorride e intanto ci mostra orgogliosa il suo ragazzino dallo sguardo vispo: Antonio ce li presenta. Dice che sono la sua famiglia kurda.
Ci ospitano in una sala grande con tanti tavoli disposti a ferro di cavallo. É tutto molto pulito. Dalle finestre giunge attutito il vocio dei venditori di frutta.
Antonio ci spiega che il marito della donna è recluso da dodici anni, dodici quanto l’età del ragazzino. E che prima di quest’ultima reclusione aveva già scontato otto anni per una precedente accusa.
Adesso è condannato a trentasei anni, lo hanno accusato di essere il capo del Pkk a Diyarbakir. Si spera in un ricorso alla Corte di Strasburgo.
Adesso mi sovviene di cosa si occupa il Tuhad fed: é quell’associazione costituita dagli ex detenuti kurdi.
Giusto il tempo di realizzare: entrano due esponenti dell’associazione. I loro occhi: hanno il colore della montagna d’autunno.


La luce proveniente dalla fiinestra ha il grande dono di rendere dolce quello che dolce non è: smussa angoli e tortuosità e fronti aggrottate e rughe e cicatrici.
Gli uomini che abbiamo di fronte sembrano uscire da un mondo di pace: il loro sguardo è sereno, ricorda le pecore e il loro essere mansuete.
Inizia a parlare quello che dei due ha il viso meno sofferto. Si presenta, il suo nome è Ali Erdemirci. Ci dice che il Tuhad fed ha cambiato modello direzionale. Non c’è più un presidente ma un comitato di cinque presidenti di cui Ali è il portavoce.
Antonio gli chiede qual’è la situazione dei penitenziari, cosa è cambiato con la costruzione delle nuove carceri, quelle dette di tipo F.
La Turchia sta costruendo nuovi istituti di pena, come se la terra su cui viviamo non sia già un luogo dove scontiamo a caro prezzo il fatto di essere kurdi. Le nuove carceri seguono un nuovo modello, sono caratterizzate da piccole celle che sostituiscono le grandi stanze dove erano posti prima i detenuti.
Nelle piccole celle viene negato ogni rapporto sociale, il detenuto resta in solitudine, isolato dal mondo. Le nuove celle hanno dimensioni ridicole, spesso destinate ad un solo carcerato, solo talvolta a gruppi di tre.
Ad aggravare lo stato di vessazione in cui un carcerato è costretto a trascorrere le ore di veglia, c’è tutto un sistema di sanzioni disciplinari volte a colpire il detenuto in quel poco che gli resta durante la detenzione. É sufficiente parlare ad un tono di voce reputato alto perché si perda il diritto di incontrare i parenti o di ricevere la corrispondenza.
C’è una sanzione più o meno grave per ogni atteggiamento che risulta poco gradito. Quale sia l’atteggiamento sottoposto a sanzione deriva dalla fantasia delle guardia penitenziaria.
Le autorità carcerarie hanno molti poteri, hanno troppi poteri.
Ci racconta di un uomo molto gentile, davvero gentile e che non aveva mai nuociuto a nessuno. Doveva uscire, ormai la sua pena era stata assolta. Rimase nel carcere per un anno in più, qualcuno si era inventato un motivo di cattiva condotta. A nulla valsero le testimonianze dei compagni di cella volte a dimostrare che il comportamento dell’uomo non fosse mai caduto in alcuna forma di eccesso. L’uomo scontò dodici mesi in più, quattro stagioni, trecentosessantacinque giorni e trecentosessantacinque notti da contare alla rovescia.
Le carceri di tipo F: nascono apposta per i detenuti politici, che poi politico significa kurdo. Le costruiscono lontane dal Kurdistan così che i parenti dei detenuti abbiano difficoltà ad andare in visita ai loro parenti.
Alì racconta di una famiglia che aveva percorso infiniti chilometri per poter vedere un parente per soli cinque minuti: gente povera, di chissà quale villaggio del Kurdistan e che parlava solo la lingua kurda. L’agente posto a guardia della conversazione quando sentì quelli parlare nella loro lingua, minacciò tutti: se avessero continuato ad esprimersi in kurdo l’incontro sarebbe stato interrotto. Spiegarono che non conoscevano il turco. Non valse a nulla. Per punire quel comportamento la guardia fece quel che aveva promesso: portò indietro il detenuto.
Adesso anche nel Kurdistan ci sono un paio di carceri di tipo F. Le sue celle le chiamano bare ad evidenziarne le misure anguste. Nel progetto le nuove celle dovevano avere il bagno, anche qualche confort. Le nuove carceri nascono dalla ristrutturazione di vecchi edifici e pertanto le celle sono meno che strette, sono umide, sono insalubri. Sono bare per uomini vivi.
Anche i cortili per l’ora d’aria sono poco più che corridoi. Per impedire che il detenuto possa vedere il cielo, il cortile presenta un reticolato a far da soffitto. Dovrebbero esserci delle biblioteche.
Non esiste alcuna norma a favore dei detenuti, esistono solo norme contro i detenuti, dice Ali e poi sospira.
Lerzan traduce e il suo viso è pallido. Nella traduzione c’è molta partecipazione. Lerzan le carceri le conosce bene: lei c’è stata.
Dovrebbero esserci le biblioteche e le palestre e gli ambulatori. I detenuti dovrebbero incontrarsi in gruppi di dieci almeno due volte la settimana. Tutto questo costerebbe al governo turco: non ci sono fondi, non c’è il personale. Ci sono solo le bare e gli uomini vivi che cercano di respirare.
Ali riferisce che in questo momento suo fratello si trova detenuto da qualche parte vicino a Izmir. C’è uno sistema di sanzioni disciplinari tale che se un detenuto fa lo sciopero della fame, non solo lui ma tutto il suo gruppo viene punito. E’ sufficiente fare lo sciopero della fame per un solo giorno perché tutti finiscano in cella d’isolamento per un periodo che va da undici a ventiquattro giorni. Il paradosso è che la pena della cella d’isolamento viene assegnata anche a chi in isolamento è costretto per tutta la vita. In questo caso il detenuto viene cambiato di cella con l’ulteriore privazione della Tv, del giornale, della cancellazione di tutte le visite.
Ali parla nella sua lingua, Lerzam traduce cercando distanza con la propria voce, io invece penso.
Penso a tutti i negozi di leccornie e gelatine al sapore di rosa e matasse di zucchero a fili, che in Turchia costeggiano le strade e stordiscono con il loro profumo.
Antonio chiede quanti sono i detenuti in carcere attualmente in Turchia.
Ali risponde che sono circa 1500 condannati circa ma questo numero non esprime la popolazione carceraria: il numero va incrementato di tante volte se si vogliono includere tutti quelli che in attesa di processo intanto vivono dietro le sbarre. Talvolta il processo condanna ad una pena di durata inferiore al periodo di attesa della sentenza.
I processi possono durare anche più di quattordici anni.


Trascorrere ventiquattro ore su ventiquattro, trenta giorni su trenta, dodici mesi su dodici in una cella detta bara in attesa di una sentenza che non arriva mai, per una accusa di reato che si riferisce ad un articolo di legge che tutela la turchità contro chi ha osato parlare la lingua kurda. Ci sono tutti i presupposti per impazzire: a Batman ci sono più di cento detenuti politici e nessuno di loro è mai stato condannato. Respirano aria di carcere, di cella buia, di muffa che fa male ai polmoni.
Non c’è pace in Turchia per i kurdi. Soprattutto se i kurdi in questione vivono vicino le montagne. In questo caso c’è la presunzione che essi aiutino la guerriglia portando alimenti. Basta guardare le montagne al tramonto per trovarsi in cella.
Ali Erdemirci era un insegnante prima che fosse arrestato. Adesso è interdetto dall’insegnamento.
Antonio ci spiega che Ali e tanti altri come lui, sopravvivono grazie alle rimesse di chi lavora in Germania o di qualche associazione che raccoglie fondi mediante l’adozione di una famiglia in difficoltà.
Lerzan ha ormai tradotto tutto quello che Ali le ha detto. Ali ci guarda. Nei nostri visi c’è rabbia, vorremmo gridare che i turchi sono bastardi, che meritano chissà quale trattamento. Trattamento. Viene da sé che troviamo la faccia tosta per domandare ai nostri ospiti di parlare del capitolo più brutto che un libro delle carceri riserva: le torture.
Un’ombra cala sul viso di Ali. Si aspettava questa domanda di certo, era inevitabile che venisse posta; per quanto fosse prevista, non ci sono meccanismi di autodifesa che aiutino a rispondere con un certo distacco, senza riprovare un vecchio dolore. Il dolore è come una intossicazione alimentare: lascia in bocca un sapore netto. Forse per questo Ali non parla. L’altro presidente sino ad ora ha ascoltato e ci ha guardato, chiedendosi forse che senso ha la riunione in corso. Potranno mai alcuni italiani vissuti nel benessere e nell’opulenza, trovare una soluzione alla questione kurda, potranno? Eppure la nostra domanda quasi risveglia i suoi occhi dalle palpebre stanche, occhi che hanno visto troppo per voler continuare a vedere. Ha la voce stanca, parla modulando il respiro. Lerzam scrive senza affrettarsi, riesce ad appuntare ogni sua parola. Fa una pausa: Lerzam ne approfitta per un primo stralcio di traduzione.
Fu torturato in malo modo. Il suo corpo fu attaccato ad un pneumatico di camion e fatto girare, girare velocemente. Nei suoi polmoni fu immessa aria, a compressione. Oggi ha una funzionalità respiratoria del 30% e la tubercolosi. E tutto sommato poteva andare peggio.
Sa di un detenuto costretto ad ingoiare un topo vivo. E ancora di un altro il cui cranio fu scaraventato più volte contro un muro e a cui nessuno volle credere che avesse subito torture. Dissero che il cranio se l’era squarciato da solo, battendo giusto la testa da qualche parte.
Sa anche di parecchi detenuti uccisi trucidamente a colpi di legno.
Antonio chiede come mai è sopraggiunta la tubercolosi.
Lerzam traduce e il nostro interlocutore riprende con le sue parole affannate.
I pasti dentro un carcere sono molto scadenti, zuppe di lenticchie, a volte di ceci. Zuppe cotte male, zuppe con chissà quali sostanze chimiche, veleni. Zuppe che aiutano a morire, giorno dopo giorno.
Alcuni medici avevano sollevato il problema nutrizionale: furono trasferiti.
Chiediamo se i secondini mostravano in qualche caso della simpatia per i detenuti, se si creavano dei rapporti quanto meno di compassione.
Lerzan traduce, il nostro interlocutore sorride. Risponde scotendo la testa. No, nessuna pietà. Solo pretesti per sanzioni disciplinari.
La logica delle carceri F è impedire che un uomo possa produrre qualcosa. L’obiettivo è annullare la personalità, la sensibilità visiva, il tatto, l’olfatto. Ci sono studi profondi dietro ogni dettaglio: l’eliminazione del colore. Tutto è tinteggiato di beige. Ad Imrali, dove è detenuto Ocalan, addirittura hanno tagliato gli alberi perché il paesaggio possa essere ancora più lunare. É una forma sottile di violenza psicologica. É dura farcela in questo modo.
Chiediamo cosa ne pensano i kurdi dell’ingresso della Turchia in UE.
Il nostro interlocutore sorride ancora e resta muto. Forse questa è la risposta che ci meritiamo, noi che da occidentali copriamo con il silenzio quello che non ci piace, quello che non vogliamo affrontare. Eppure in uno sforzo, ci viene regalata una risposta, diplomatica così come ce la meritiamo: i kurdi non sono contrari all’ingresso della Turchia nella UE a patto che questo diventi motivo per una soluzione rapida della questione kurda. Se l’Europa considera i kurdi come terroristi allora siamo lontani da una soluzione della nostra questione.
Si è fatto buio. Le luci sono calate e nessuno ha acceso la luce. Il nostro amico ha ultimato il suo pensiero. Lerzan attende una nostra domanda. É giusto che per almeno un attimo regni il silenzio, non di quella qualità a trama fitta e che è fatta apposta per coprire ogni cosa. Un silenzio più semplice, costituito da deboli fili, da umiliazione e rispetto.
Qualcuno pigia sull’interruttore. La penombra viene squarciata dalla luce di un bulbo. Strizzo gli occhi. Per un attimo abbiamo vissuto tutti l’atmosfera di una cella. Un attimo di niente ci ha fatto bene. Chissà quanto uccide solo un anno, un mese, un giorno dello spazio neutro che i turchi creano per far dimenticare ai kurdi i loro colori. Se il nero è il colore del lutto, oggi so che quella tinta di beige vicinissima al grigio e all’ultimo bagliore di un crepuscolo stinto è il colore della tumulazione a vivo.
I saluti con i membri del Tuhad fed sono veloci. Gli sguardi nostri vorrebbero essere intensi quanto quelli di chi ci ha parlato di ingiuste detenzioni, di torture, di sanzioni immotivate. Non abbiamo neanche il diritto di osare di alzare i nostri occhi verso i loro. Eppure lo facciamo, siamo occidentali. Pensiamo forse di aver visto di peggio in qualche film dato alla televisione.
Per strada i mercanti di frutta e verdura espongono la loro mercanzia e si prestano a delle fotografie. Un venditore buccia un ravanello grande quanto un’arancia e lo affetta e ce ne fa assaggiare. É buono. Esprimiamo il proposito di comprarne e portarceli con noi in Italia.
Abbiamo già digerito il nostro ultimo incontro.
Ci aspettano adesso presso l’Associazione degli Ingegneri.


Presentarsi candidi al cospetto di Allah.
Prepararsi alla preghiera è un rito a cui un musulmano non si sottrae. Il mondo esterno e le sue tentazioni sporcano l’anima, la pelle. L’ingresso in una mosche richiede il rito delle abluzioni. I piedi per primi vengono sottoposti ad un flusso di acqua corrente: toglierà ogni traccia di terra e di fango, di guerra e di odio.
Le mani sono soggette a grandi peccati: il furto, gli atti impuri. Anche loro sono protagoniste del rito dell’acqua. Vengono sciacquate ripetutamente.
Molti, i più sinceri, riconoscono come le loro labbra, la loro lingua, la loro gola sono macchiate del peccato della calunnia, della menzogna, della impostura. I più sinceri sciacquano la loro bocca a fondo.
Presentarsi lindi al cospetto di Allah è cosa buona ed è cosa pure giusta.
Ci sono delle terre dove il peccato alberga: arriva da lontano, dalle montagne, e poi ci trova casa, ci realizza un piccolo orto per coltivarci quelle quattro zucchine e patate che non bastano nemmeno per evitare di morire di fame; ci alleva una capra. Che poi se in Turchia hai una capra sei ricco. O almeno così ti considerano i servizi sociali.
Terra peccaminosa, terra da purificare il Kurdistan. Quale migliore occasione che non bloccare un fiume, bloccare le sue correnti e sottoporre all’acqua innocente il candeggio di terra calpestata da piedi di kurdi infetti?
Con l’Ordine degli Ingegneri di Diyarbakir parleremo proprio di questo: acqua che cancella l’identità culturale.
Ci viene incontro per strada un ingegnere turco, o forse kurdo. É straordinariamente vestito alla maniera occidentale: giacca quattro tasche, jeans sdruciti, sciarpetta scura. Ha l’aria trasandata che si ottiene con la giusta miscelazione di roba griffata. Scopriamo subito l’inghippo e ne siamo stupiti: il turco/kurdo in questione è davvero kurdo. Solo che ha vissuto dieci anni in Germania. Questo ci spiega la trasandata eleganza. Restiamo stupiti e allo stesso tempo ammirati: Sedim, si chiama così l’ingegnere, è tornato nel Kurdistan per difendere i diritti del suo popolo dopo avere studiato per tanti anni in Germania. Non so se qualcuno di noi ha pensato qualcosa del tipo “ma chi glielo ha fatto fare a tornare da queste parti....”. Lui no. Ha rinunciato alla benestante Germania rischiando ogni giorno di offendere la turchità tanto sacralizzata dal padre dei turchi.
Sedim è portavoce della lotta contro il progetto di costruire una diga sul fiume Tigri, là nella valle dell’Hasankayef.
Sedim parla a nome di 70 tra associazioni, municipalità e Ong: la diga sul Tigri non ha ragione di esistere. Gli ingegneri con il loro ordine, si sono posti a capofila della protesta. Supporteranno loro, con la loro capacità di fare calcoli e stime, che quella muragliata a fermare l’acqua, ad allagare terre, a distruggere formicai e a far fuggire formiche, altro non è che un sinonimo mal truccato di pulizia etnica di un territorio.
Lo sbarramento del fiume creerebbe una pozza circolare del diametro massimo di 180 km (tra me e me che sono siciliano, penso che si tratterebbe di allagare quanto da Palermo a Messina, trascinando ammollo come nello spot di un detersivo, chissà quanti paesi, abitanti e monumenti).
Sedim continua dicendo che ben 200 villaggi verrebbero cancellati di botto, costringendo 55.000 abitanti a sloggiare da qualche parte.
I numeri turchi sono sempre un fatto relativo, soprattutto se si tratta di numeri che si riferiscono ai kurdi. Se 55.000 sono gli individui da sloggiare ufficialmente, bisogna almeno moltiplicare per 5 al fine di avere una stima che rasenti il dato reale.
Solo una piccola parte degli sloggiati riceverebbe un indennizzo, e in particolare i proprietari terrieri. La rimanente parte della popolazione riceverebbe giusto una indicazione di massima sulla direzione da prendere per potere scappare.
Già 50 villaggi risultano evacuati da tempo, sebbene col tempo qualcuno è rientrato. Successe con le prime migrazioni forzate.
Ci si può aspettare che nuove genti costrette a migrare, si riverseranno su Diyarbakir e Batman e in altre città, così ad arricchire il numero di morti di fame e bambini col muco secco a vagare per strada in cerca di un turista disposto a commuoversi. Meglio tenerli in un ghetto che a casa loro, sicuramente pensa qualcuno e più di uno.
Ci dice Sedim che il governo non ha chiesto alcun parere delle municipalità che stanno per annegare. Forse le considera già decorazioni del nuovo acquario in costruzione (la prima pietra è stata già posta). E poi i pesci non parlano. Che si abituino.
E questo nonostante ci siano pareri negativi dalle valutazioni di impatto ambientale. Sono pareri errati, pensa qualcuno, pareri che non tengono conto di variabili atipiche quali il beneficio della derattizzazione della valle dell’Hasankayef da quel tipo di topo strano che è il kurdo che ha messo su casa.
Hanno detto che la valle in questione è ricca di flora e di fauna: 123 tipi di uccelli e chissà quante specie di erbette varie e verdure e alberelli. Nessuno osa però parlare di quella razza infestante che è il turco di montagna, tipico vertebrato della razza delle ortiche che nonostante la scure ricresce sempre più forte.
Ci sono monumenti: ben due civiltà si insediarono nella valle dell’Hasankayef. Dodicimila anni di vita nascosta tra le sedimentazioni del terreno. Dodicimila anni senza che si scavi. Ci sono delle grotte, anche mille, dove prima abitava la gente, sino al 1967, quando poi i kurdi che vi abitavano li cacciarono tutti. E poi c’è un arco, alto quaranta metri, costruito dagli antichi Kartuchi.
In Turchia tutti i siti archeologici sono posti sotto la protezione del ministero della giustizia.
Erano partite quattordici operazioni di scavo in altrettanti siti. Sette sono già state bloccate.
Ci sono ruderi pieni di storia. Pieni sì, per chi della storia subisce il fascino lieve. E trattasi comunque di ruderi che in un acquario troverebbero la giusta visibilità, visitabili dagli interessati mediante dotazioni gratuite di tute da palombaro.
Mille qualità dell’acqua come agente conservante.
La diga, non ultimo, servirà per produrre energia elettrica, buona di certo per illuminare i catafalchi nei funerali kurdi.


Per produrre energia elettrica basta fermare un fiume con un invaso. Far confluire l’acqua in una condotta che al suo interno ha delle ventole il cui movimento va ad azionare delle turbine. Queste creano poi una differenza di potenziale che viene trasmessa a tutta una rete per giungere così sino ad una lampadina posta all’altra punta della penisola anatolica durante il percorso di tanta energia se ne spreca il 20%. Mica male considerato che mediamente in Europa se ne disperde solo il 5%.
Si potrebbe risparmiare migliorando le falle della rete distributiva. Basterebbe recuperare solo il 10% dell’energia dispersa per ottenere il triplo di quanto prodotto grazie all’invasamento. Ma questo lo dicono gli ingegneri. Cosa si pretende che ne capiscano questi di questioni sociali.
Basterebbe incentivare l’acquisto di lampadine a basso consumo per risparmiare tutta quell’energia che la diga andrebbe a produrre.
Ma questo lo dicono gli ingegneri. Sì, bei calcoli, ma cosa ne sanno gli ingegneri di disinfestazioni.
Si potrebbe investire in impianti per la produzione di energia eolica. In Turchia non c’è una bandiera che non sventoli a qualunque ora del giorno.
Si potrebbe investire in impianti per la produzione di energia solare.
In Turchia fa sole dodici mesi l’anno.
Questi investimenti costerebbero molto meno del grande invaso.
Per non parlare dell’energia geotermale.
Gli ingegneri si ostinano a non capire: ci sono relazioni internazionali da salvaguardare. Ci sono compagnie austriache, tedesche, svizzere pronte ad investire. Ad investire denaro e ad investire kurdi, con potenti ed enormi zaffate d’acqua.
Sedim ci dice che il governo turco si è rivolto all’Agenzia per il credito all’export (ECA). I suoi funzionari sono già venuti a visionare i luoghi. A fine 2006 la decisione sulla finanziabilità dell’investimento.
Intanto che avvenga questa visita non resta che diffondere i dati sugli sprechi di risorse che il progetto comporterebbe. Si sa, c’è sempre una ragione che la ragione non sa. Talvolta questa risiede negli effetti collaterali. Ma questo non si può dire, almeno nella terra dei figli di Ataturk.
Sono quasi otto, il nostro amico Sedim viene coinvolto dal nostro Matteo che in Kurdistan c’è venuto con macchina da presa e registratore nonché una fila di domande in inglese. Ha un progetto: realizzare un filmato sulla compulsory migration. Ci dice che la miglior traduzione di questo termine è migrazione forzata. Penso a come due parole di diciassette lettere e uno spazio, possano racchiudere il dramma di chissà quante famiglie costrette a fuggire da casa. Non si dovrebbe permettere a certe parole di sintetizzare fenomeni in così poco.
É ora di andare. Si torna in albergo e poi ci aspetta la cena. Non siamo lontani, decidiamo pertanto di proseguire a piedi. Lucia rimane un po’ indietro. Mi attardo con lei e intanto che camminiamo mi racconta di come organizza le sue bancarelle per finanziare i progetti a sostegno della comunità kurde. Di quando decise di vendere le pashmina e di non limitarsi ad offrire solo il chai dietro richiesta di un contributo.
É così. La gente è disposta a commuoversi per i poveri kurdi ma piange veramente se al collo può stringere la lana calda e leggera di una sciarpa dai colori mediorientali.
Lucia è l’aspetto pratico della nostra missione. Gestisce la cassa comune, paga i tassisti e il ristorante. Ha mille buste, una per ogni beneficiario, che sia una famiglia adottata o il cassiere dell’albergo.
Non mi racconta quasi mai di quanto soffrono i kurdi ma sa dirmi tutto su come dalle bancarelle ha tirato fuori i finanziamenti per l’ambulatorio di Ayazma e tante altre cose.
Mi dice che domani andrà al suk per acquistare le mille cose che metterà sulle bancarelle a Natale. Le farò compagnia, l’aiuterò a portare i sacchi colmi delle sue compere.
Ogni storia inizia e finisce con una donna. Una donna che partorisce nel sangue e che dal sangue raccoglie le spoglie del proprio figlio. O se non del proprio, comunque del figlio di un’altra donna.
Anche i fatti contabili iniziano e finiscono allo stesso modo. C’è sempre una Lucia che investe per poi trasformare i suoi acquisti in finanziamenti. Funziona, brava Lucia. Chi l’ha mai detto che la contabilità è di sesso maschile?


Il mattino ci coglie con una improvvisa voglia di televisione.
Ci sono diversi canali, c’è gente che parla. Optiamo per un canale che trasmette video musicali. C’è qualcosa di strano in Shakira che muove il bacino mentre canta la sua canzone più recente, qualcosa di assolutamente estraneo ai suoi movimenti che eppur si muove a suon di musica. É una bandierina rossa con una mezzaluna e una stella e la stilizzazione di un volto che mi ricorda il logo del Kentucky Fried Chicken. No, niente a che fare col pollo fritto all’americana dalla crosta croccante e aromatizzata. É Ataturk, il padre dei turchi, colui che fondò la repubblica di Turchia facendola sorgere dalle cenere dell’Impero Ottomano. Ataturk che pare godersi gli sculettamenti della bella cantante. Cambio canale. C’è ancora Atuturk con uno sfondo di talk show. Faccio zapping un po’ ovunque. Ataturk che partecipa allo spot di un dentifricio. Il padre dei turchi non lascia mai i telespettatori.
Ataturk non crede forse di inflazionare la propria immagine, questo è evidente. Chissà se spegnendo il televisore la bandierina e l’effigie stilizzata resistono sul tubo catodico. Off: spariti. Volendo si trova sempre un modo per disfarsi delle presenze invadenti.
Scendiamo nella hall.
Svelti svelti, ci richiama Antonio, ci stanno aspettando.
Aspettando dove?
Alla municipalità di Baglar.
Cosa è?
Vedrete, vedrete.
Usciamo dall’albergo non prima di farci una foto a mo’ di pubblicità dello Jagermeister. Tutti sulle scale a formare un triangolo. Peppa scatta la foto. Dice che sembriamo gli ospiti di una casa di cura pronti per fare la gita.
Ma va’ è il commento che si becca. Si parte. All’uscita dell’albergo ci sono i nostri amici venditori di fazzolettini. Ci tocca aspettare dieci minuti buoni: Peppa e Alfonso che non riescono a staccarsi da una quindicina di bambini. A chi carezzano il viso, a chi passano la mano sui capelli, a chi darebbero il piacere dell’adozione se fosse facile e possibile. L’unica cosa che alla fine si può dare è solo un saluto. Chissà se ai bambini che ogni mattino piantonano l’uscita dell’albergo per vendere fazzolettini, questo basterà.
Si va, il furgoncino ci ha caricati tutti. Diyarbakir sembra sonnecchiare. É sabato. O forse siamo noi ad essere convinti che c’è poca gente in giro.
La città scorre sotto i nostri occhi. Le strade costeggiate da case basse contrassegnate da mille insegne gialle a caratteri rossi, le testine di agnello e il kebab in attesa di avventori, i carrettini con gli agrumi e i loti, le mura di Diyarbakir restaurate talvolta in modo poco ortodosso.
Un paio di bivi poco asfaltati ci portano in un quartiere dai palazzi incredibilmente alti e ancora in costruzione. É una zona di forte espansione residenziale. Tra gli scheletri di pilastri una costruzione a specchi di stampo moderno.
É li che siamo destinati. É il municipio di Baglar.
Il furgoncino parcheggia. Usciamo. Ci accoglie l’immensa struttura della sede del sindaco. Saliamo per le scale. La modernità dell’edificio cozza con quello che sino ad ora abbiamo visto e sentito.
Avverto un certo senso di disagio.
L’autista del furgoncino ci accompagna a primo piano. Lì ci aspetta una ragazza dalla pelle chiara e gli occhi azzurri. Ci dice Buongiorno in lingua italiana.
Antonio ci spiega subito che Serra, questo è il suo nome, ha studiato la nostra lingua.
La seguiamo. Ci fa accomodare in una stanza semicircolare le cui pareti a vetro danno sulla crescita dei palazzoni in cemento armato.
Altre donne entrano nella stanza. Ci salutano tutti, uno per uno. Vestono in jeans e maglione corto e aderente. Hanno dei bei capelli, pettinati come va in voga tra le italiane.
Antonio, da buon Virgilio, continua a spiegare che non tutte le donne kurde portano il velo e le gonne lunghe. Ci sono quelle che non lo fanno, ma questo passa per una busta paga. L’emancipazione della donna necessita del suo stipendio.
La municipalità di Baglar gestisce un importante progetto: si occupa di combattere il dramma dei bambini di strada. Ce ne sono ben ventottomila a Diyarbakir. Prendiamo come sempre il numero per buono ma tutti noi pensiamo che è più credibile se moltiplicato per sei.
Serra ci spiega che la scuola e il doposcuola che la municipalità supporta, aiuta i bambini ad allontanarsi dalla strada. Tuttavia la soluzione del problema necessita interventi sul tessuto familiare. Per una famiglia kurda la città non offre lavoro o ne offre poco, il più delle volte frutto di espedienti. I bambini che vagano in caccia di un soldo o di qualche ortaggio raccolto da terra, spesso finiscono per essere l’unica fonte di reddito familiare.
É nelle famiglie il vero problema, nell’incapacità dei contadini strappati alle loro terre, di ambientarsi nelle città affollate.
Ci dice Serra che nell’ultimo anno nella città di Van ci sono stati ben 56 suicidi, tutti di donne. (continua)


Il suicidio tra i kurdi è particolarmente diffuso, soprattutto tra le donne. La percentuale di suicidi femminili nelle città del Kurdistan turco è molto più elevata che in tutta la Turchia.
Serra e le altre ragazze della municipalità di Baglar si stanno occupando dello strano fenomeno. Si offrono di darci un quadro di questo problema sociale. Lerzan è molto attenta, la vediamo prendere appunti con particolare interesse. Serra, Ozlem e Sultan si alternano, ognuna ci tiene ad aggiungere qualcosa che non è stato detto. Hanno modi di porgersi molto diversi. Serra è decisamente europea, tiene le sue gambe affusolate quasi divaricate poggiando i suoi gomiti alle ginocchia. Parla molto lentamente e annuisce quando è una sua collega a dare una precisazione. Ozlem è molto mediorientale. Ha gli occhi dal bagliore umido delle ancelle dei sultani. Ha la pelle scura, le sopracciglia marcate e lunghe.
Lerzam vola con la sua matita sul foglio, riempie pagine su pagine.
Finalmente inizia a tradurre.
Le donne kurde vivono sulla loro pelle più che gli uomini, il dramma della migrazione forzata. Nel tipo di società rurale basata sull’agricoltura e sulla pastorizia, la donna kurda aveva un ruolo ben definito e di vitale importanza. Ad ella spettava il ruolo della coltivazione dell’orto, della cura dei formaggi, della preparazione delle conserve, mentre agli uomini spettava la transumanza. Il mondo ruotava attorno alla loro opera. Sebbene non avessero una vita sociale molto vivace, nell’ambito familiare si realizzavano appieno, esprimendo grandi doti nel cucire e ricamare e tessere tappeti.
Lo spostamento obbligato dalla campagna alla città ne ha snaturato il ruolo, le ha costrette alla reclusione tra le mura domestiche facendole cadere in uno stato di prostrazione, anticamera di tutti i suicidi di cui sommiamo i numeri senza trovare una soluzione.
La possibilità di aiutare le donne kurde attraverso strutture di assistenza è ostacolata dall’influenza della parola di certi imam che discreditano l’assistenza pubblica in funzione di una soluzione tutta religiosa dei problemi sia di natura mentale che fisica.
Ci dice Lerzan che attualmente sono in corso delle interviste ad amici, parenti, vicini delle donne che hanno commesso suicidio. Si teme che dietro un presunto suicidio si nasconda invece il delitto d’onore.
Se sino a qualche anno fa il delitto d’onore era depenalizzato, adesso grazie ai movimenti delle donne, questo è trattato alla stregua degli altri delitti.
Oltre alla raccolta di informazioni, parallelamente la municipalità si sta occupando di corsi di alfabetizzazione ma anche di igiene e sanità.
Non c’è la cultura della visita ginecologica: dice Serra che le donne kurde che provengono dalle montagne, soprattutto quelle anziane, sono molto timide se poste di fronte ad un medico. Ma sopratutto molto spesso non si hanno i mezzi per ricorrere ad un medico gratuitamente: bisogna avere la carta verde, la carta che da diritto all’assistenza sanitaria. Per ottenerla però non bisogna avere simpatie o parentela con membri del PKK. Tale norma impedisce di avere assistenza. Una altro modo indiretto di fare pulizia etnica.
Le moschee di loro non danno certo un buon indirizzo: esortano le donne a non farsi vedere da un medico e piuttosto a risolvere ogni problema attraverso la preghiera.
Anche questo incontro è formalmente finito. Antonio e Alberto parlano con Serra e il vicesindaco di certe formalità necessarie affinché si possa formalizzare l’erogazione di un finanziamento destinato alla gestione del doposcuola a Baglar.
Andiamo tutti a visitare la scuola che l’Associazione di Antonio e Lucia finanzia.
Per raggiungerla facciamo un giro lungo che ci porta attraverso il ghetto kurdo di Diyarbakir.
Il primo quadro che ci si pone davanti è quello di alcune donne intente a cucinare il pane. Sono in gruppo, all’aperto. Il loro forno ha delle piccole bocche all’interno del quale vengono poste delle spianate sottili di pasta di pane. Un paio sono intente a riporre le focacce lievitate dentro il forno. Una di loro si avvicina al furgone: ha la pelle scura, bruciata dal sole e dal freddo, la testa coperta dal velo.
Si avvicina e sorride e ci offre una pagnotta calda. Ha il sapore che il pane delle nostre parti ha perso già da tempo. Alcuni di noi scendono dal furgone: riprendiamo con le telecamere le fasi della cottura del pane, scattiamo delle foto ai bambini che ci circondano festosi. Qualcuno dal furgone ci dice che non è prudente, che la polizia potrebbe insospettirsi nel vederci nel ghetto. Salutiamo e ringraziamo e continuiamo a muoverci tra le vie del ghetto. Una musica allegra, dapprima lontana e poi più vicina ci annuncia un grande evento: in uno spiazzo, dietro i pali di una rete per giocare al pallone, c’è un gruppo di kurdi che sta festeggiando un matrimonio. Sono vestiti in modo curato, le donne portano eleganti gonne lunghe e nere, forse di velluto. Gli uomini vestono i loro pantaloni a sacco, si chiamano sharwal e in epoca lontana contraddistinguevano i peshemerga, i combattenti della montagna. Oggi no, li indossano solo gli anziani.
Ne vediamo tanti di uomini che indossano gli sharwal e le giacche e i gilet scuri. La sposa è vestita di beige, è piuttosto distante, ma è evidente: il suo abito è ricco di merletti. Gli sposi e i loro invitati sono disposti in cerchio e ballano, ballano poggiando le mani alle spalle del vicino e intanto ruotano, un po’ avanti e un po’ indietro. Siamo nel ghetto, tra gente povera: eppure si divertono, sorridono e sono tutti uniti nel rito del ballo.
Il furgone riprende il suo corso. Ci aspetta un incontro molto importante: il presidente del DTP, il Partito Democratico Turco, ennesima mutazione della sinistra turca e filokurda che sino a qualche tempo fa si chiamava Dehap e ancora prima Hadep e Dep e Ep.
Si cambia nome, per sopravvivere a bombe e attentati, ad arresti e a censure. Essere di sinistra in Turchia non è come esserlo in Italia. Quì l’atmosfera di Genova 2001, la si vive e respira tutti i giorni.
Mentre il furgone attraversa la città guardo le insegne degli esercizi commerciali. I miei occhi sono attratti da Haci Baba Sofrasi, Ofis Eczanesi, Genglik bufe, Burkular sofra saloni.
Ci fermiamo un attimo di fronte al parco di Kosyolu, proprio alla fermata dell’autous di Baglar dove il dodici settembre una bomba ha ucciso subito dodici morti, tredici con il ferito perito poi in ospedale. Tra di loro pure un bambino di un anno, si chiamava Ezgi Yetisecek. Le altre vittime si chiamavano Ezran, Mubin, Ali, Sahin, Murat, Hasan, Samet, Selahattin, Mehmet, Neytuallah, Seyfettin, Vehbi, Suleyman, Emine, Nadihe. Quanti nomi la Turchia vuole che si aggiungano a questo elenco? Quanti nomi noi Ue siamo disposti a tollerare?
E intanto dicono che l’attentato è stato causato dai kurdi, ma qui nessuno ci crede. C’è da dimostrare all’Europa quanto i kurdi sono terroristi. Si inscenano tragedie umane a base di esplosivo. Forse i turchi credono davvero che ai kurdi piace morire.
Siamo giunti.
Il DTP si trova in una delle vie centrali di Diyarbakir. Entriamo nel palazzone. Delle scale fatiscenti ci portano in un primo piano dove c’è gente in attesa. Non so se aspettano noi.
E intanto noi entriamo nella stanza della presidenza. Dietro la scrivania c’è un quadro che ritrae una rosa stilizzata: è il simbolo del partito.


Attendiamo un po’ e intanto beviamo un chai, solito bicchieretto a forma d’anfora, accompagnato da un piattino. Il rito della distribuzione delle zollettine di zucchero.
C’è caldo nella stanza.
Beviamo il the e intanto aspettiamo. In fondo siamo lì perché il presidente del DTP ha accettato di incontrarci. I politici si fanno aspettare, lo sappiamo bene noi in Italia.
Ricordo un mio amico politicante che rispose ai suoi tre cellulari quasi contemporaneamente. Sì, diceva al primo, alle sei ci vediamo in piazza. Al secondo rispose: sì, alle sei ci vediamo alla stazione. Al terzo rispose: sì, alle sei sono alla sezione.
Gli chiesi se aveva il dono dell’onnipresenza. Mi rispose che non sarebbe andato a nessun appuntamento, che andava a casa. Quei tre avrebbero capito che lui aveva avuto un contrattempo.
Il nostro amico no, prima ci fa comunicare che sta arrivando, e poi arriva per davvero.
É gentile Hilmi Ajdogon, ci stringe la mano e poi ci chiede se vogliamo chiedere qualcosa in particolare o se vogliamo che sia lui a darci una panoramica sulla situazione politica della Turchia.
Ci dice subito che Diyarbakir è una città infelice. Ci sono troppe uccisioni. C’è troppa tensione. Ci racconta che lo scorso marzo, fu nel giorno 25, si stavano svolgendo manifestazioni contro il divieto di celebrare il funerale di 14 guerriglieri uccisi con le armi chimiche. La polizia turca aveva impedito ai giornalisti l’accesso alla città. Avrebbero potuto fornire false notizie. E intanto si sparava contro la folla. Sette morti, di cui tre bambini. Probabilmente amici di quegli stessi bambini che girano oggi per la città con un pacchetto di fazzolettini in mano.
Ci dice quanto sia chiaro che i turchi vogliano tornare prepotentemente alla strategia del terrore, agli “assassinii senza autore”. I turchi appoggiano una forza paramilitare, la Brigata della vendetta turca (Turk Intikam Tugayi). I militari dicono che il kurdo migliore è quello morto.
Le associazioni hanno manifestato contro lo stato di assedio, con una marcia silenziosa. Dopo la marcia c’è stata la richiesta di “Cessate il fuoco” al PKK da parte della popolazione. La gente è stanca di morire. Hanno aderito tutti, gli intellettuali, le Ong.
Il PKK ha dato il termine di maggio 2007 affinchè il governo turco si adopri veramente per costruire un percorso di pace. Ma i turchi continuano a sparare, il Cessate il fuoco sino ad ora è solo unilaterale.
Lerzan traduce per noi e ogni parola sembra sua. Ogni sua parola contiene tutto il suo credo e si percepisce.
A maggio del 2007 ci saranno le elezioni per la carica di presidente della Repubblica. Erdogan aspira a questa carica ma ha contro l’esercito. L’esercito è guidato dagli integralisti, l’esercito è contro l’ingresso della Turchia nella Unione Europea.
Ricordo di aver letto che l’esercito riconosce solo quella forza oscura che è formata da tutti i generali ex-golpisti e il cui nome è riassumibile in una sigla:OYAK. L’ho letta pure, andando in giro per Diyarbakir. L’Oyak è anche una banca, è un istituto previdenziale per gli ex-militari. É un ente consultivo del governo a cui però il primo ministro non può sottrarsi, a meno di non voler rischiare i cosiddetti golpe virtuali.
Anche gli Usa hanno chiesto il cessate il fuoco al PKK, giusto per non sfigurare troppo di fronte al mondo intero, data la stretta parentela con il governo turco. E intanto finanziano i kurdi che si trovano in Iran. Gli Usa cercano complici che siano disposti a sporcarsi le mani contro Almadineyad.
Il presidente del DTP lamenta la priorità data dalla UE alla questione cipriota rispetto a quella kurda.
Un altro grande fattore di discriminazione che i kurdi subiscono risiede nella legge elettorale. Attualmente c’è lo sbarramento del 10% che un partito deve superare per poter accedere in Parlamento. Il Partito Democratico Turco, da sempre vicino al dramma dell’etnia kurda, sperava di poter superare tale sbarramento nelle ultime elezioni, unendosi con la sinistra kemalista, con il CHP. É stata una scelta sbagliata. Molti kurdi non hanno capito il valore strategico.
Nel CHP milita pure la Signora Tansu Ciller, è stata premier la signora. Il suo nome è legato alle incursioni nel territorio iracheno per andare a caccia di militanti del PKK. Il suo nome puzza di polvere da sparo.
Molti kurdi non hanno capito il valore strategico dell’operazione politica. Molti kurdi ricordano ancora l’odore di quegli esplosivi.
Ci asteniamo dal valutare: sappiamo bene noi italiani come gli sbarramenti portano a mettere sullo stesso cono il gelato al gusto cioccolato e quello al limone.
Matteo chiede di poter intervistare e filmare Hilmi Ajdogon sul tema della migrazione forzata.
Ajdogon accetta e sentiamo dalla sua voce resoconti sullo stato di necessità in cui vive la popolazione kurda. Della migrazione e dall’assenza di fondi per finanziare una legge di facciata che prevede il rientro dei kurdi nei paesi da cui furono costretti a migrare. É il cosiddetto progetto del Villaggio Centrale. E intanto che nessuno sforzo serio viene fatto a favore della gente kurda, questa cerca di arrabattarsi tra datori di lavoro che non ne vogliono sapere di assumerli e lupi grigi, gruppo di estrema destra, che fa delle vere e proprie battute di caccia al kurdo.
Un ultima domanda viene posta con riguardo al rapporto con i cugini kurdi iracheni.
Ajdogon potrebbe dirne tante su come kurdi turchi, iracheni, iraniani e siriani siano sempre stati usati e spinti in lotte fratricide: bruciano ancora sulla pelle i permessi che i kurdi iracheni davano a Tansu Ciller per fare irruzioni nell’Iraq nella loro caccia ai guerriglieri del PKK. E bruciano pure i finanziamenti che i kurdi iraniani ricevevano da Saddam per porsi contro il regime di Khomeini, così come gli aiuti di Teheran a Talabani e all’UPK.
Di questo Ajdogon forse preferisce non parlare. Dice che ci sono rapporti di fratellanza sebbene la differenza di contesti ne determini una certa distanza. Sottolinea come gli americani, i kurdi iracheni al momento ce li abbiano dalla loro parte.
Anche questo incontro si è concluso. Non resta che muoverci e andare al suk. Forse riusciamo ancora a comprare qualcosa.
No, al suk ci andremo dopo. C’è un altro incontro che ci aspetta.


Sulla tabella c’è scritto Insan Haklari Dernegi. É l’associazione per i diritti umani. Ad attenderci il nuovo responsabile della sede di Diyarbakir.
Entriamo in una stanza destinata alle conferenze. É grande. Alle pareti ci sono delle foto. Tutte le persone ritratte hanno gli occhi tristi. Laddove non ci sono occhi, ci sono armi e grate. E militari in parata.
Sediamo tutti attorno al tavolo. Forse avremmo preferito andare al suk però ci rendiamo conto che questo incontro è importante per davvero.
In questa stessa stanza, attorno a questo stesso tavolo, siedono di solito le delegazioni della UE in visita a Diyarbakir nell’ambito dell’osservatorio mondiale sul rispetto dei diritti umani.
L’Hid si basa fondamentalmente sul volontariato. Attualmente ci sono nove avvocati che si occupano della difesa dei detenuti.
Il responsabile ci parla dell’attività di raccolta dati relativamente alle violazioni dei diritti e agli omicidi con matrice politica. Nei primi nove mesi del 2006 si contano già 261 morti, 247 feriti.
Nel 2005 gli uccisi sono stati 318, 205 i feriti. Questo solo nella zona di Diyarbakir.
Numeri. Mi chiedo se davvero queste cifre fanno pensare, o sintetizzano tante morti a tal punto da scollarsi dal dato reale: un individuo che prima respirava e rideva e godeva della vita e che dopo lo sparo di un proiettile non c’è più.
Cerco di immaginare tutti i cadaveri dei kurdi uccisi, li raffiguro come le pecore che contavamo da piccoli per riuscire a prendere sonno. Duecento sessantuno pecore sono tante. Sono uno sterminio.
Armi chimiche....Lerzan traduce qualcosa a proposito di armi chimiche. Rientro dal mio stato di distrazione. Pare che i turchi stiano sperimentando nuove armi, alla pari degli israeliani che si divertono a testare il nuove Dime. Alcuni medici dell’Hid sono riusciti a prendere piccoli campioni di sangue dai guerriglieri uccisi con certe armi nuove. Tra un anno si conosceranno gli esiti. Sarebbe stato meglio avere pure un campione di terra. Prendere la terra dal luogo dello scoppio dell’ordigno non è semplice però.
Gli avvocati che hanno avuto modo di vedere i cadaveri nella camera mortuaria sono rimasti sbalorditi: i cadaveri erano bruciati esteriormente ma intatti dentro.
L’argomento della conversazione si sposta sulle migrazioni forzate e sulla assoluta inadeguatezza del programma del Villaggio Centrale.
I paesi evacuati dieci e vent’anni fa oggi sono invivibili, privi di ogni infrastruttura. Non ci sono risorse per un rientro. Alcuni kurdi sono tornati nei loro paesi di origine. La voce sullo sfacelo dei vecchi siti abitativi si è sparsa: la gente preferisce restare nei campi profughi piuttosto che andare a viveri tra ruderi e rovine.
La legge sul Villaggio Centrale prevede indennizzi da mille a quarantamila lire turche. La Corte Europea ne aveva prescritti almeno 500.000 al fine di ripagare del danno subito dai kurdi costretti a migrare.
Il governo turco ha trovato il modo per non pagare: l’indennizzo non spetterebbe a chi avuto contatti con esponenti del PKK, il partito di Ocalan.
E seppure qualcuno decide di tornare ai villaggi, c’è tutta una procedura che prevede l’approvazione del prefetto prima e della Polizia dopo. Nonchè la firma di alcuni documenti in cui si dichiara di negare la propria identità kurda.
Chiediamo se c’è una stima sulle scomparse.
Il responsabile ci risponde che è veramente complicato stabilirne il numero reale. Spesso le scomparse non vengono denunciate. Nel 1995 scomparvero 13 contadini. La loro fossa comune è stata ritrovata. Chissà quante di queste fosse sono sparse tra le terre fertili che danno ortaggi e frutta tra i più belli del mondo.
Non c’è pace per i kurdi: fascisti e turchi adesso praticano il linciaggio. Nella zona di Izmir si sono registrati già parecchi casi. I kurdi sono considerati terroristi, zingari, assassini.
Il responsabile ci mostra delle tabelle. Il mio sguardo si poggia sulle foto appese alle pareti.
Chiudo gli occhi: questo non impedirà però ai turchi di continuare il massacro.
Mi alzo, esco.
Dopo qualche minuto escono anche gli altri. É finita.
Con quale coraggio potremo tornare alle nostre attività lavorative, alle nostre famiglie, alla tranquillità dei nostri paesi e allo stesso tempo vestire con abiti, mangiare cibi prodotti in Turchia.
É tardi. Ringraziamo per la disponibilità. Si va di corsa al suk. Faremo degli acquisti per dimenticare: noi occidentali lo sappiamo bene che lo shopping è il rimedio contro tutti i mali.
Dobbiamo fare in fretta però. Alle dieci parte l’aereo per Istambul.























Arriviamo a mezzanotte


Arriviamo a mezzanotte circa ad Istanbul: la città sonnecchia. Nel taxi io, Rossella e Alfonso siamo seduti dietro. Guardiamo le luci della città scorrere dai finestrini. Il tassista cerca di intavolare una qualche discussione con Peppa che è seduta davanti.
Deduciamo che lei ha riferito al tassista che veniamo da Diyarbakir: questo le sta chiedendo come mai siamo andati proprio lì.
Intervengo. Siamo turisti, gli dico. Ci avevano detto che c’erano dei bei monumenti, e però che Istanbul è molto più bella.
Lui non è contento. Sono tutti assassini e terroristi a Diyarbakir, ci sono i kurdi da quelle parti.
Il tassista ci chiede quanti giorni siamo stati a Diyarbakir. Appena due giorni, rispondo, appena il tempo di costatare che non era affatto interessante.
Molto meglio Istanbul, sottolinea Rossella.
Il tassista non è contento ma noi non intendiamo parlare della nostra posizione intellettuale nei confronti dei kurdi. Chiedo al tassista cosa offre la città.
Risponde che la città di Istanbul offre tanto. C’è la vecchia Bisanzio e poi Costantinopoli. Le mura, le moschee. Ci riferisce che è uno studente di storia e che ha studiato le vicende degli antichi romani.
Ci complimentiamo, lui si gasa.
Chi è l’uomo più grande della storia, ci chiede in modo esagitato.
Chi è? Ci chiediamo noi guardandoci negli occhi. Rossella opta per Ottaviano Augusto, aggiungo io Giulio Cesare. Meglio navigare in acque tranquille, pensa ognuno di noi tra sé.
Il nostro amico non è soddisfatto. Prende il portafoglio e tira fuori una banconota.
Lo vedete questo qui? Lui è Ataturk, il padre dei turchi. Per me è il più grande uomo della storia. Per voi, chi è il più grande uomo della storia italiana?
Ho capito tutto. Vuol essere preso per il culo. Benito Mussolini, gli rispondo con il tono di chi ha indovinato l’ultima domanda del quiz “Chi vuol essere miliardario”.
Il tassista è contento. Calco la mano. Gli dico pure che Mussolini ha fatto tanto per l’Italia, ha trasformato l’economia da agricola a industriale, ha costruito tanti bei palazzi di giustizia.
Rossella e Alfonso mi ucciderebbero, mi dicono che sono stronzo e se non lo dicono proprio esplicitamente, lo pensano in modo però da farmelo percepire. Io mi diverto, il tassista è troppo contento delle mie esaltazioni del caro estinto.
Ringalluzzito dalle mie lodi fasciste, ci pone un ultima domanda: chi preferite tra Prodi e Berlusconi?
Io non avrei dubbi su quale nome rispondere ma Rossella ormai non la trattiene più nessuno.
Pertini, dice Rossella, Sandro Pertini. E rivolgendosi a me dice: tanto a Pertini lui non lo conosce.
Siamo arrivati in albergo. Se avessimo detto che il più grande uomo della storia è Ocalan, dove avremmo dormito quella notte? E non solo quella.
Scendere dal taxi è una liberazione. L’abbiamo scampata bella.
Rossella mi dice che mai e poi mai avrei dovuto rispondere che il più grande uomo era Mussolini. Me lo dice scherzando. Le rispondo che se il tassista aveva voglia di essere preso per il culo, perchè non accontentarlo sviolinandolo pure?
É vero, la madre dei cretini è sempre incinta. Ma quella dei fascisti non è da meno.








La domenica mattina


La domenica mattina si presenta a noi come un giorno di festa. C’è nel cielo un sole alto e lieto con i raggi tali e quali a quelli che un bambino disegnerebbe. Sì, come in uno di quei disegni dove la casa ha il tetto con le tegole rosse e si vede l’interno della stanza da pranzo con il tavolo e due sedie e il vaso con dei fiori, dove gli alberi (di solito due, uno a destra e l’altro a sinistra) sono carichi di mele, dove sullo sfondo ci sono le montagne triangolari di colore verdolino chiaro. E dove in un cielo azzurro che più azzurro non si può, spicca il sole proprio alto e lieto come quello che ci aspetta fuori dall’albergo.
Dopo una colazione abbondante, si parte tutti. Un furgoncino del
Goc-Der, associazione che si occupa dei profughi kurdi di Istanbul, ci porta ad Ayazma. Pare che Ayazma sia una sorta di sobborgo di Istanbul un po’ fuori dalla città.
Lerzan non sapendo che un furgoncino sarebbe venuto a prenderci, aveva suggerito l’utilizzo dei mezzi pubblici come alternativa al taxi; pare che i tassisti molto spesso non sanno dove si trovi Ayazma.
Alle nove siamo tutti pronti per partire. Istanbul si presenta in tutto il suo splendore: la luce del sole la rende simile alla vetrina di una gioielleria.
Il furgoncino va veloce, si muove con destrezza tra arterie principali e autostrade. Più si allontana e più il paesaggio perde qualcosa. I primi a sparire sono i bei palazzoni con le finestre dai davanzali fioriti. Dopo un po’ è il turno degli alberi: niente più vegetazione lussureggiante a stridere con l’azzurro intenso del cielo. Poi scompare l’asfalto: la strada diventa sterrata e costeggiata pure da cumuli di terra e di rifiuti.
Antonio ci dice che siamo arrivati.
Ayazma? Dov’è? chiediamo.
É giù, nella vallata.
Dove giù?
Lì, da quella parte.
Guardiamo giù: un sentiero fangoso porta verso....un sentiero fangoso porta verso un piccolo e bell’agglomerato di casette proprio come quelle che disegnano i bambini. Anche le stradine appartengono alla loro mano incerta: si arrampicano tra i pendii della vallata. Ai margini delle strade scorrono dei fiumiciattoli e si intravede, in fondo alla vallata, quella che potrebbe dirsi la piazzetta del villaggio. Ci sono tanti bambini belli per davvero che ci seguono e giocano con noi, e che ci dicono come si chiamano. Le donne sorridono e gli uomini pure. Ci sono caprette e pure i gatti. Ne vediamo alcuni che attendono la generosità di un venditore di acciughe. Il fiumiciattolo rallegra ogni casa sfiorandolo con la sua portata lieve. Alcuni bambini giocano a pallone mentre altri scherzano con un ragazzino un po’ più grande forse semplicione. Il prato è verde un po’ ovunque, verde come il pastello più verde di una scatola di colori.
Tutto è felice, tutto evoca Leopardi con il suo sabato e la sua donzelletta e le vecchine e il piccolo falegname. Tutto è gioioso. La vita scorre lenta e tutti si stringono e si parlano e sorridono. Ad Ayazma tutto è lieto e ridente. Pure le vaccine che masticano l’erba più dolce.
C’è pure un piccolo ospedalino ad Ayazma, dove la gente può andare a curarsi.
Chi è venuto con me ad Ayazma mi sta accusando certamente di star scrivendo una gran menzogna, di aver descritto il Kurdistan che non c’è. E però a volte una menzogna vale più di mille verità per davvero.
Ma Ayazma è vicina, a sole due ore di aereo da Roma. Una volta usciti dall’aereoporto di Istanbul basta chiedere ad un tassista, uno qualsiasi, di accompagnarvi da quelle parti. Non dite però “mi porti ad Ayazma”. Non saprebbe da che parte andare. Usate come riferimento lo stadio di calcio, quello nuovo e immenso, quello che si vede anche in televisione.
Ayazma è lì dietro, dietro i cumuli di terra e dove le strade diventano sterrate.