domenica 22 ottobre 2006

LE DIGHE IN TURCHIA

Ercan Ayboga, giovane ingegnere originario di Dersim, vive e lavora a Diyarbakir. Fa parte dell’Hasankeyf Girisimi (Iniziativa per la Sopravvivenza di Hasankeyf). A inizio ottobre è giunto in Italia, dove ha tenuto due conferenze: nella IV edizione di “Mediterre” a Bari e poi a Roma, ospite di Attac Italia (da alcuni anni attiva per il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico in Italia). Nella conferenza romana Ayboga ha illustrato l’Hasankeyf Girisimi: include 71 organizzazioni (municipalità locali, associazioni professionali, ONG,…) che 9 mesi fa hanno iniziato ad attivarsi per bloccare la costruzione della Diga di Ilisu e salvaguardare il sito archeologico di Hasankeyf, gioiello del patrimonio culturale dell’area, situato sulle rive del Tigri. I problemi derivanti dalla costruzione di dighe sono molto dibattuti in Turchia. I due casi più “scottanti” riguardano Ilisu e la costruzione di dighe nell’area del fiume Munzur (provincia di Dersim). Il Munzur scorre nell’area montuosa del Kurdistan turco più ricca di foreste. La provincia di Dersim annovera circa 100000 abitanti. Subì duramente gli effetti del conflitto turco-kurdo negli Anni ’80-’90: i militari bruciarono i boschi e distrussero molti villaggi dell’area: solo 190 dei 450 originari rimasero in piedi; gran parte della popolazione fu costretta a migrare altrove. Nel 1971 nella regione era stato istituito il Parco Nazionale del Munzur, nel 1974 a sud-ovest di Dersim fu inondato il gigantesco invaso della diga di Keban. Furono poi progettate 8 dighe nella provincia: due (Usuncayir e Mercan) sono ormai costruite; mancano solo le turbine nei correlati impianti idroelettrici e gli invasi non sono stati ancora inondati per sopraggiunti problemi tecnici. L’invaso che si crea quando una diga comincia a funzionare è un vero e proprio lago artificiale, che solitamente cancella le strade preesistenti e muta la fisionomia di un’area (alveo dei fiumi, monti e vallate circostanti), con notevole incidenza: 1518 sono le specie vegetali e faunistiche minacciate di distruzione per effetto dei progetti di dighe a Dersim e dintorni: 43 sono endemiche dell’area. Vi sono poi luoghi di rilevante significato culturale per la numerosa popolazione di religione alevita della zona che verrebbero sommersi. A ciò si aggiungerebbe un ulteriore sfollamento di popolazione, dopo quello causato dal conflitto. Tuttavia il Devlet Su Isleri (DSI), ente statale turco che si occupa della progettazione e costruzione di dighe, porta avanti le sue opere senza consultare popolazioni coinvolte, ONG e municipalità locali. La popolazione teme che le dighe siano una sorta di punizione, volta a privare la popolazione di Dersim della sua identità culturale come ritorsione per le ribellioni (in occasione di quella che ebbe luogo nel biennio 1937-38 rimasero uccise 10000 persone, poi seguirono forme di resistenza organizzate a partire dagli Anni ’70). Ayboga passa poi a illustrare alcuni aspetti tecnici: le dighe dell’area, una volta completate, avranno una capacità di produttiva di 360 MW, comporteranno una spesa di 1,5 miliardi di dollari e tuttavia, secondo le scarne informazioni fornite dal DSI, l’energia prodotta coprirà solo lo 0,9% del fabbisogno energetico nazionale. Molte associazioni locali da circa 7 anni si battono per la salvaguardia dell’area del Munzur e dei principali affluenti (Mercan e P"ul"um"ur). Ben più noto anche in ambito internazionale è il caso di Ilisu, località turca situata vicino ai confini con la Siria e con l’Irak. La diga, a regime, avrà capacità produttiva di 1200 MW, misurerà 138 metri in altezza e l’inondazione riguarderà un’area di 313 kmq. Molteplici saranno le forme di impatto negativo: sulla struttura sociale, poiché comporterà lo sfollamento di 55000 persone dai villaggi d’origine; sull’ecosistema del fiume Tigri, che vedrà mutare al conformazione del proprio bacino (la capacità di portata d’acqua del fiume si ridurrà della metà). Non sarà tecnicamente facile far ciò, attesta Ayboga, ma sarà possibile. Vi sarà poi l’impatto sul patrimonio culturale: oltre ad Hasankeyf, altri 288 siti archeologici saranno sommersi. La ragione di tutto ciò? Solitamente i Paesi rivieraschi che condividono un fiume stipulano accodi internazionali sull’utilizzo sostenibile delle relative acque: Turchia, Siria e Irak non ne hanno però mai stipulati né riguardo al Tigri, né all’Eufrate. Costruite le dighe, la Turchia avrà a disposizione una sorta di arma da utilizzare nei confronti dei due Paesi limitrofi. Le dighe in costruzione in Turchia sono in maggioranza situate nell’area sud-orientale, cioè nella regione kurda, già devastata da un conflitto pluriennale e che vedrà così ulteriormente compromessi struttura sociale, patrimonio culturale e assetto. Nell’area di Ilisu già in precedenza la popolazione non aveva alcun diritto a possedimenti terrieri e lavorava solitamente nei campi di latifondisti, in quanto circa quattro decenni fa fu predisposta la riforma agraria, ma la relativa legge ne escluse l’applicazione nelle aree a prevalenza kurda. Gli abitanti dell’area iniziarono allora ad affluire in gran numero nelle periferie delle città; seguirono gli sfollamenti prodotti dal conflitto e città come Batman e Diyarbakir iniziarono a ingrandirsi a dismisura, con effetti negativi dovuti al sovraffollamento. Anche ad Hasankeyf e dintorni vi è un rischio ecologico: 123 specie, tra flora e fauna, rischiano l’estinzione per via della costruzione della diga, come testimonia una ricerca condotta da un istituto scientifico-naturalistico di Ankara. Tuttavia, riguardo all’impatto ambientale non è mai stata formulata alcuna valutazione. Ayboga illustra poi gli argomenti discussi in Turchia riguardo alla produzione di energia: i 1200 MW producibili a Ilisu costituirebbero circa il 3% della produzione nazionale; tuttavia occorre tener conto della notevole dispersione; pertanto l’incidenza sulla produzione nazionale scenderebbe al 2,3%. La Turchia ha attualmente 138 impianti idroelettrici attivi e altri 38 in costruzione; una volta completate le costruzioni, vi saranno nel Paese oltre 700 dighe. Lo stato avrà speso al riguardo 17 miliardi di dollari con la prospettiva di ricavarne, vendendo energia… 18 miliardi appena. Lo stato dice che si creeranno 3,6 milioni di posti di lavoro, ma mai parla di quelli che andranno persi: l’inondazione di vaste aree adibite a invaso comporterà infatti la disoccupazione per moltissimi contadini e pastori. La Turchia ha delle alternative: è soleggiata per gran parte dell’anno e pertanto potrebbe produrre circa 20000 MW grazie all’energia solare e ricavarne anche da impianti eolici e geotermici. potrebbe altresì accrescere la sua produzione anche provvedendo a riparare, con costi relativamente modici, impianti come gasdotti, oleodotti,… già esistenti, il che comporterebbe la diminuzione della dispersione di risorse energetiche (l’incidenza della dispersione nel Paese è del 23%!). È anche da tener presente che le dighe sono “superflue”: la Turchia è infatti un Paese che nell’immediato futuro non corre alcun rischio d’incorrere in crisi energetiche. La diga di Ilisu farà parte del GAP (Progetto Idrico per l’Anatolia Sud-Orientale), inaugurato nel 1984 e che, allorché completato, disporrà di 22 dighe e 90 impianti idroelettrici. L’Anatolia Sud-Orientale non è altro che il Kurdistan settentrionale, su cui si riverserebbero gli impatti negativi della costruzione di dighe. Si dice che il GAP consentirà l’irrigazione di 1,8 milioni di ettari di terreno, ma quel che le autorità non dicono è che a seguito della costruzione di dighe l’acqua diviene spesso inservibile proprio per l’irrigazione, poiché cresce il suo tasso di salinità. Nel 1999 fu costituito il Consorzio Ilisu, composto da 3 società turche e 7 società straniere, tra le quali anche l’italiana Impregilo. Nel 2002 il consorzio si ruppe poiché di fatto non era mai stato in grado di funzionare come era nei programmi. Campagne di pressione in Europa avevano portato al ritiro dal consorzio stesso sia l’Impregilo che compagnie britanniche e svedesi. Vi sono tuttavia tre società, una svizzera, una austriaca e una tedesca, che tuttora insistono nel voler portare avanti il progetto di costruzione. Per farlo hanno però bisogno di appoggio, in forma di garanzia sulla copertura finanziaria dell’investimento, dalle rispettive agenzie statali di credito all’esportazione. Pertanto associazioni turche hanno cominciato a curare l’aspetto della pressione su tali agenzie, redigendo rapporti che fanno pervenire anche a istituzioni e organi di stampa europei, riguardanti le aree interessate e i danni che potrebbero derivare dalla costruzione; ospitano altresì delegazioni europee e lanciano manifestazioni (l’ultima ha avuto luogo ad Hasankeyf a inizio agosto). Una decisione è attesa in ottobre da parte delle agenzie; è indubbio che per i governi dei tre Paesi si tratterà d’una decisone di rilevante importanza politica: basti pensare, ad esempio, che l’Austria non vuole affatto perdere il ruolo finora conquistato nel mercato energetico turco; la società austriaca VATech è coinvolta nella costruzione di numerose dighe in Turchia, oltre a quella di Ilisu. Hasankeyf Girisimi attesta: se Austria, Svizzera e Germania intendono investire nella costruzione di dighe in Turchia, allora si facciano anche carico responsabilmente degli sconvolgimenti ambientali che ciò apporterebbe all’area mediorientale! L’opposizione alla costruzione di dighe è molto attiva in Turchia e comprende ben 38 movimenti, non solo nelle città dell’area kurda, ma anche a Istanbul. Si contestano molte asserzioni delle autorità turche, che godono di scarsa fiducia quando affermano di voler attuare grandi investimenti per contribuire allo sviluppo economico della regione sud-orientale. Se si vuole davvero lo sviluppo dell’area, Hasankeyf Girisimi e altri gruppi sono anche propositivi, conclude Ayboga: “L’area kurda ha notevoli ricchezze paesaggistiche, naturali e archeologico-culturali, sulle quali si potrebbe far leva per progetti che alimentino il turismo in tale area”. [Giovanni Caputo – 4 ottobre 2006] Ercan Ayboga, giovane ingegnere originario di Dersim, vive e lavora a Diyarbakir. Fa parte dell’Hasankeyf Girisimi (Iniziativa per la Sopravvivenza di Hasankeyf). A inizio ottobre è giunto in Italia, dove ha tenuto due conferenze: nella IV edizione di “Mediterre” a Bari e poi a Roma, ospite di Attac Italia (da alcuni anni attiva per il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico in Italia). Nella conferenza romana Ayboga ha illustrato l’Hasankeyf Girisimi: include 71 organizzazioni (municipalità locali, associazioni professionali, ONG,…) che 9 mesi fa hanno iniziato ad attivarsi per bloccare la costruzione della Diga di Ilisu e salvaguardare il sito archeologico di Hasankeyf, gioiello del patrimonio culturale dell’area, situato sulle rive del Tigri. I problemi derivanti dalla costruzione di dighe sono molto dibattuti in Turchia. I due casi più “scottanti” riguardano Ilisu e la costruzione di dighe nell’area del fiume Munzur (provincia di Dersim). Il Munzur scorre nell’area montuosa del Kurdistan turco più ricca di foreste. La provincia di Dersim annovera circa 100000 abitanti. Subì duramente gli effetti del conflitto turco-kurdo negli Anni ’80-’90: i militari bruciarono i boschi e distrussero molti villaggi dell’area: solo 190 dei 450 originari rimasero in piedi; gran parte della popolazione fu costretta a migrare altrove. Nel 1971 nella regione era stato istituito il Parco Nazionale del Munzur, nel 1974 a sud-ovest di Dersim fu inondato il gigantesco invaso della diga di Keban. Furono poi progettate 8 dighe nella provincia: due (Usuncayir e Mercan) sono ormai costruite; mancano solo le turbine nei correlati impianti idroelettrici e gli invasi non sono stati ancora inondati per sopraggiunti problemi tecnici. L’invaso che si crea quando una diga comincia a funzionare è un vero e proprio lago artificiale, che solitamente cancella le strade preesistenti e muta la fisionomia di un’area (alveo dei fiumi, monti e vallate circostanti), con notevole incidenza: 1518 sono le specie vegetali e faunistiche minacciate di distruzione per effetto dei progetti di dighe a Dersim e dintorni: 43 sono endemiche dell’area. Vi sono poi luoghi di rilevante significato culturale per la numerosa popolazione di religione alevita della zona che verrebbero sommersi. A ciò si aggiungerebbe un ulteriore sfollamento di popolazione, dopo quello causato dal conflitto. Tuttavia il Devlet Su Isleri (DSI), ente statale turco che si occupa della progettazione e costruzione di dighe, porta avanti le sue opere senza consultare popolazioni coinvolte, ONG e municipalità locali. La popolazione teme che le dighe siano una sorta di punizione, volta a privare la popolazione di Dersim della sua identità culturale come ritorsione per le ribellioni (in occasione di quella che ebbe luogo nel biennio 1937-38 rimasero uccise 10000 persone, poi seguirono forme di resistenza organizzate a partire dagli Anni ’70). Ayboga passa poi a illustrare alcuni aspetti tecnici: le dighe dell’area, una volta completate, avranno una capacità di produttiva di 360 MW, comporteranno una spesa di 1,5 miliardi di dollari e tuttavia, secondo le scarne informazioni fornite dal DSI, l’energia prodotta coprirà solo lo 0,9% del fabbisogno energetico nazionale. Molte associazioni locali da circa 7 anni si battono per la salvaguardia dell’area del Munzur e dei principali affluenti (Mercan e P"ul"um"ur). Ben più noto anche in ambito internazionale è il caso di Ilisu, località turca situata vicino ai confini con la Siria e con l’Irak. La diga, a regime, avrà capacità produttiva di 1200 MW, misurerà 138 metri in altezza e l’inondazione riguarderà un’area di 313 kmq. Molteplici saranno le forme di impatto negativo: sulla struttura sociale, poiché comporterà lo sfollamento di 55000 persone dai villaggi d’origine; sull’ecosistema del fiume Tigri, che vedrà mutare al conformazione del proprio bacino (la capacità di portata d’acqua del fiume si ridurrà della metà). Non sarà tecnicamente facile far ciò, attesta Ayboga, ma sarà possibile. Vi sarà poi l’impatto sul patrimonio culturale: oltre ad Hasankeyf, altri 288 siti archeologici saranno sommersi. La ragione di tutto ciò? Solitamente i Paesi rivieraschi che condividono un fiume stipulano accodi internazionali sull’utilizzo sostenibile delle relative acque: Turchia, Siria e Irak non ne hanno però mai stipulati né riguardo al Tigri, né all’Eufrate. Costruite le dighe, la Turchia avrà a disposizione una sorta di arma da utilizzare nei confronti dei due Paesi limitrofi. Le dighe in costruzione in Turchia sono in maggioranza situate nell’area sud-orientale, cioè nella regione kurda, già devastata da un conflitto pluriennale e che vedrà così ulteriormente compromessi struttura sociale, patrimonio culturale e assetto. Nell’area di Ilisu già in precedenza la popolazione non aveva alcun diritto a possedimenti terrieri e lavorava solitamente nei campi di latifondisti, in quanto circa quattro decenni fa fu predisposta la riforma agraria, ma la relativa legge ne escluse l’applicazione nelle aree a prevalenza kurda. Gli abitanti dell’area iniziarono allora ad affluire in gran numero nelle periferie delle città; seguirono gli sfollamenti prodotti dal conflitto e città come Batman e Diyarbakir iniziarono a ingrandirsi a dismisura, con effetti negativi dovuti al sovraffollamento. Anche ad Hasankeyf e dintorni vi è un rischio ecologico: 123 specie, tra flora e fauna, rischiano l’estinzione per via della costruzione della diga, come testimonia una ricerca condotta da un istituto scientifico-naturalistico di Ankara. Tuttavia, riguardo all’impatto ambientale non è mai stata formulata alcuna valutazione. Ayboga illustra poi gli argomenti discussi in Turchia riguardo alla produzione di energia: i 1200 MW producibili a Ilisu costituirebbero circa il 3% della produzione nazionale; tuttavia occorre tener conto della notevole dispersione; pertanto l’incidenza sulla produzione nazionale scenderebbe al 2,3%. La Turchia ha attualmente 138 impianti idroelettrici attivi e altri 38 in costruzione; una volta completate le costruzioni, vi saranno nel Paese oltre 700 dighe. Lo stato avrà speso al riguardo 17 miliardi di dollari con la prospettiva di ricavarne, vendendo energia… 18 miliardi appena. Lo stato dice che si creeranno 3,6 milioni di posti di lavoro, ma mai parla di quelli che andranno persi: l’inondazione di vaste aree adibite a invaso comporterà infatti la disoccupazione per moltissimi contadini e pastori. La Turchia ha delle alternative: è soleggiata per gran parte dell’anno e pertanto potrebbe produrre circa 20000 MW grazie all’energia solare e ricavarne anche da impianti eolici e geotermici. potrebbe altresì accrescere la sua produzione anche provvedendo a riparare, con costi relativamente modici, impianti come gasdotti, oleodotti,… già esistenti, il che comporterebbe la diminuzione della dispersione di risorse energetiche (l’incidenza della dispersione nel Paese è del 23%!). È anche da tener presente che le dighe sono “superflue”: la Turchia è infatti un Paese che nell’immediato futuro non corre alcun rischio d’incorrere in crisi energetiche. La diga di Ilisu farà parte del GAP (Progetto Idrico per l’Anatolia Sud-Orientale), inaugurato nel 1984 e che, allorché completato, disporrà di 22 dighe e 90 impianti idroelettrici. L’Anatolia Sud-Orientale non è altro che il Kurdistan settentrionale, su cui si riverserebbero gli impatti negativi della costruzione di dighe. Si dice che il GAP consentirà l’irrigazione di 1,8 milioni di ettari di terreno, ma quel che le autorità non dicono è che a seguito della costruzione di dighe l’acqua diviene spesso inservibile proprio per l’irrigazione, poiché cresce il suo tasso di salinità. Nel 1999 fu costituito il Consorzio Ilisu, composto da 3 società turche e 7 società straniere, tra le quali anche l’italiana Impregilo. Nel 2002 il consorzio si ruppe poiché di fatto non era mai stato in grado di funzionare come era nei programmi. Campagne di pressione in Europa avevano portato al ritiro dal consorzio stesso sia l’Impregilo che compagnie britanniche e svedesi. Vi sono tuttavia tre società, una svizzera, una austriaca e una tedesca, che tuttora insistono nel voler portare avanti il progetto di costruzione. Per farlo hanno però bisogno di appoggio, in forma di garanzia sulla copertura finanziaria dell’investimento, dalle rispettive agenzie statali di credito all’esportazione. Pertanto associazioni turche hanno cominciato a curare l’aspetto della pressione su tali agenzie, redigendo rapporti che fanno pervenire anche a istituzioni e organi di stampa europei, riguardanti le aree interessate e i danni che potrebbero derivare dalla costruzione; ospitano altresì delegazioni europee e lanciano manifestazioni (l’ultima ha avuto luogo ad Hasankeyf a inizio agosto). Una decisione è attesa in ottobre da parte delle agenzie; è indubbio che per i governi dei tre Paesi si tratterà d’una decisone di rilevante importanza politica: basti pensare, ad esempio, che l’Austria non vuole affatto perdere il ruolo finora conquistato nel mercato energetico turco; la società austriaca VATech è coinvolta nella costruzione di numerose dighe in Turchia, oltre a quella di Ilisu. Hasankeyf Girisimi attesta: se Austria, Svizzera e Germania intendono investire nella costruzione di dighe in Turchia, allora si facciano anche carico responsabilmente degli sconvolgimenti ambientali che ciò apporterebbe all’area mediorientale! L’opposizione alla costruzione di dighe è molto attiva in Turchia e comprende ben 38 movimenti, non solo nelle città dell’area kurda, ma anche a Istanbul. Si contestano molte asserzioni delle autorità turche, che godono di scarsa fiducia quando affermano di voler attuare grandi investimenti per contribuire allo sviluppo economico della regione sud-orientale. Se si vuole davvero lo sviluppo dell’area, Hasankeyf Girisimi e altri gruppi sono anche propositivi, conclude Ayboga: “L’area kurda ha notevoli ricchezze paesaggistiche, naturali e archeologico-culturali, sulle quali si potrebbe far leva per progetti che alimentino il turismo in tale area”.
[Giovanni Caputo – 4 ottobre 2006]